“In battaglia […] è disonorevole per un capo lasciarsi superare in valore ed è disonorevole per il seguito non eguagliare il valore del capo. Inoltre, costituisce un’infamia e una vergogna, che dura tutta la vita, tornare dal campo di battaglia, sopravvivendo al proprio capo: difenderlo, proteggerlo, attribuire a sua gloria i propri atti di valore è un impegno più sacro: i capi combattono per la vittoria, il seguito per il capo”. 



Ogni volta che rifletto sulla gravità della crisi politica tedesca mi vengono alla mente queste righe di Tacito nella sua Germania, un libro che secoli dopo la sua scrittura antropologica vivissima ci parla ancora oggi e ci descrive una Germania profondamente mutata da allora, soprattutto per quel che concerne lo spirito gregario e dell’onore in battaglia. Oggi la crisi politica tedesca è veramente crisi di leadership nel senso che il principale partito della storia tedesca, ossia il centro democratico cristiano, non riesce a trovare la via della successione del suo capo: Angela Merkel emascula sempre politicamente i suoi eredi, che lei stessa sceglie per poi umiliare e mortificare. 



La crisi tedesca è crisi di successione e di incapacità del capo di continuare a camminare su quello strettissimo crinale della storia europea e mondiale che è stata ed è la dominazione post-bellica tedesca dell’Europa. Una dominazione che inizia di già dopo la Prima e non dopo la Seconda guerra mondiale, proprio perché paradossalmente la Germania – vinta in guerra – doveva divenire vincitrice in pace delle stesse potenze che l’avevano mortificata in guerra. 

Un altro testo fondamentale per comprendere l’arcano della storia tedesca è un classico della storia monetaria internazionale, ossia l’aureo libretto di Paolo Baffi su Le origini della cooperazione tra le banche centrali. L’istituzione della Banca dei Regolamenti Internazionali che l’acribia di Gabriella Raitano ci ha riconsegnato con una splendida cura per le edizioni della Banca d’Italia nel 2003 per i tipi della Laterza. In quel testo Baffi dimostrava con un’ermeneutica tecnica raffinatissima come la Germania, tramite i suoi formidabili civil servant, riuscì a capovolgere la politica di riparazione e di umiliazione a cui la si era sottoposta da parte delle potenze europee. Anche in quei frangenti il ruolo degli Usa – diretto a non mortificare la Germania in funzione antisovietica – fu fondamentale. Così come fu ed è in questo secondo dopoguerra sino a quando sulla scena mondiale non è apparsa la potenza cinese, mentre paradossalmente la Germania si riunificava, per il crollo dell’Urss e per l’incapacità degli Usa di comprendere il pericolo di quella riunificazione che avveniva proprio mentre la Cina emergeva come potenza mondiale. Potenza che la Merkel ha individuato come l’interlocutore essenziale per riaffermare in Europa una dominazione realizzata non attraverso la democrazia e il federalismo, ma attraverso i trattati internazionali e il governo a-simmetrico della stessa stesura dei trattati internazionali, realizzando in questo modo il punto di congiunzione tra la centralizzazione capitalistica necessaria nella globalizzazione, sottraendosi alla dominazione capitalistica nordamericana e difendendo l’autonomia e la supremazia della borghesia tedesca e della Germania. Degli Usa si ricerca solo l’ausilio della potenza militare (viva la Nato!) in funzione antirussa, ma solo per quello che è sufficiente, senza danneggiare le relazioni economiche con la Russia stessa, utile per la sua strategicità energetica – non solo per la Germania ma per tutta l’Europa -, consentendo così alla stessa Germania di detenere una posizione di controllo sulla macchina burocratica dell’Unione Europea. 



Quanto lo scontro sia ancora al calor bianco con gli Usa lo si è visto recentemente con la dichiarazione della Corte Costituzionale tedesca, che impedisce al Parlamento tedesco di legiferare sul Recovery Fund sino a quando la sentenza non sarà pubblicata e sia risolto un problema gravissimo di relazione tra le corti costituzionali europee e sino a quando la Corte di giustizia europea sarà chiamata a deliberare sulla questione, con la distruzione della politica economica di mutualizzazione di bilancio che pareva che la stessa Merkel volesse inverare (io avevo clamorosamente errato nelle mie analisi precedenti in merito).

Solo il controllo della macchina burocratica dell’Ue consente alla Germania di continuare nella politica di percorso meramente tattico in Europa e nel mondo senza quelle potenzialità militari che lo renderebbero possibile. Ma è proprio questo stesso agire giorno per giorno guidati solo dall’economia che caratterizza la debolezza tedesca. La Germania non possiede fortunatamente più quella cultura della ricerca della guerra che caratterizzò la storia tedesca sino alla Shoah e al Processo di Norimberga: la cultura tedesca si è profondamente trasformata e ha abbandonato definitivamente il terreno della “nazione prussiana” per abbracciare quello della “nazione liberista” che comanda con l’economia piuttosto che con le armi. 

Ma comandare con l’economia obbliga a una visione solo tattica e non strategica, com’è invece tipico della visione militare. Questo se l’economia è quella del dominio del mercato imposto dall’alto con una sorta di neo-cameralismo burocratico sovranazionalizzato di marca Gosplan sovietico. In fondo, è questo il dominio politico dell’Ue: tecnici di nomina politica che diventano burocrati che si spartiscono le spoglie del potere del comando centralizzato. 

Ursula von der Leyen è l’emblema di questo potere, che ormai si riproduce anche per via ereditaria: la figlia del primo direttore generale dell’Ue dimostra con la sua debolezza non solo di non saper gestire una campagna vaccinale anti-pandemica, ma addirittura di non saper gestire un protocollo delicatissimo com’era senza dubbio quello della visita che ha compiuto recentemente in Turchia con un presidente del Consiglio europeo che non conosce le regole della buona creanza e dell’educazione, così come la stessa von der Leyen non conosce le regole del rispetto dei principi religiosi altrui, presentandosi in pantaloni a un capo di partito, e della religione di stato che è divenuto l’islam in versione turca. 

Anche la presidente von der Leyen era una delfina della Merkel, e anche lei non si è dimostrata in grado di adempiere ai compiti elementari per uno statista o per una statista, come oggi si è costretti a declinare. E che dire poi del povero neo-leader della Cdu Armin Laschet, del quale sono note le simpatie russo-cinesi, il quale ha criticato il governo della cancelliera proprio sui provvedimenti di sostegno economico nella pandemia (“Non è arrivato assolutamente niente”) e così si è meritato una secca reprimenda della Merkel, che ha detto a chiare lettere che la peggiore situazione, in Germania, era quella dell’inefficienza del governo della Renania Settentrionale-Vestfalia di cui Laschet è presidente. Azzoppando così il suo delfino, così come aveva fatto con Weber candidato sconfitto al Parlamento europeo nella lotta per divenire presidente della Commissione europea.

L’assenza di strategia tipica della politica merkeliana coincide con la coazione a ripetere del capo contro i suoi seguaci. Ma ora i rapporti si invertono: è la Merkel che divora i suoi figli, a differenza di ciò che successe nel rapporto tra lei ed Helmut Kohl, pugnalato alla schiena nella “tangentopoli franco-tedesca”, quando colui al quale la Merkel tutto doveva fu accusato dalla sua delfina di aver intascato tangenti in un affaire di raffinerie al confine franco-tedesco.

La crisi politica tedesca può così trasformarsi nella crisi politica europea.

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