I frattali che si sono sedimentati lentamente e inesorabilmente dal corridoio jagellonico – che scende dal Mar Baltico e, attraverso la Polonia nuovamente archetipale, va giù giù sino al plesso danubiano-balcanico per sfociare, attraverso Malta e Cipro, nel crogiolo del Grande Medio Oriente – si vanno ricomponendo in un equilibrio instabile tra i due perni del neo-Impero Ottomano, da un lato, e la durezza militare strategica della politica di salvezza dello Stato di Israele, dall’altro.
La salvezza dello Stato ebraico va configurandosi, infatti, come la salvezza della possibilità dell’Occidente di non continuare a odiare se stesso, in quel delirio antropologico delle sue élites che dalle università francesi e nordamericane ha tracimato nel mondo grazie al landscape post-colonialistico che ha trovato in Said il suo primo cantore.
Non è un caso che oggi si continuino a dimenticare le violenze contro i profughi ebrei iniziate da Nasser e continuate dal Bath iracheno per decine e decine di anni nel sonno delle democrazie poliarchiche europee e della burocrazia celeste di una Ue sempre più conquistata dalla droga politically correct decostruzionistica franco-nordamericana.
Questo percorso culturale trova ora una sua cristallizzazione nel nuovo precario ordine pre-post-bellico che sta emergendo dal profilarsi di una soluzione coreana (un cessate il fuoco senza un trattato di pace) sulle coste della Crimea e dalla vittoria militare israeliana sul dominio sciita iraniano nel plesso mesopotamico che sta perdendo ogni capacità di attrazione nei confronti delle monarchie del Golfo, disinnescando il campo minato che l’Ue non mai tentato di eliminare, nonostante la minaccia che esso costituisce per il suo commercio mondiale e indo-pacifico in specie.
Si tratta di un processo di trasformazione del potere mondiale scaturito, questo va sottolineato, ben prima della vittoria di Trump, il cui realismo in politica estera (che si cela dietro un travestimento populistico comunicativo) giunge ora a sancire un risultato che trova la sua origine nell’impossibilità – nonostante il suo delirio aggressivo frutto della reazione all’estrazione imperialistica anglosferica – di eliminare il contributo russo al patrimonio culturale dell’Europa storicamente, secolarmente, costituitosi.
L’anno si chiude con un bilancio meno disastroso e delirante di quanto non si potesse supporre quando il delirio woke ha iniziato a consolidarsi più di quarant’anni or sono, sulle onde della reazione neoliberista di una centralizzazione capitalistica che ha, per via regolata statualmente, sostituito alla politica la governance, con conseguenze devastanti che sono più che mai evidenti in Francia e Germania.
La realtà delle armi e la speranza della pace hanno ancora un lungo percorso da compiere, ma una luce in fondo al tunnel della storia inizia ad apparire.
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