Tutto sembra fuori squadra in Italia, tutto pencola senza simmetria ed equilibrio e tutto sembra precipitare senza un filo conduttore. Un esempio: Emmanuel Macron e Mario Draghi si sono incontrati prima del G20 con grande familiarità e con un senso di fiducia reciproca, nel pieno della crisi del sistema dei partiti tedeschi scossi dalla situazione grave della Cdu e della cancelliera Angela Merkel che non è stata in grado né di guidare alla vittoria il suo partito, né di assicurare alla nazione tedesca e alla stessa Cdu un successore presentabile.
E negli stessi giorni di quell’incontro si celebravano i fasti del cosiddetto trattato franco-italiano, magnificato dal presidente della Repubblica e affidato, nello stupore delle cancellerie internazionali, non al Parlamento e a una sua commissione, ma a privati cittadini ex ministri e imprenditori, con una torsione privatistico-segretata impressionante.
E veniamo alla squadra che non riesce a formarsi: si è appena conclusa la visita dello stesso presidente della Repubblica, accompagnato dal ministro degli Esteri (lo stesso che appoggiava la protesta per le strade parigine dei gilet jaunes), in Algeria, dove ha inaugurato un monumento e una lapide nel ricordo di Enrico Mattei, esaltato – il che è sacrosanto – come un profeta anti-colonialista e come martire della lotta di liberazione dei popoli… e per questo giustiziato dal fascismo francese. Il tutto in un Paese martoriato e investito da conflitti profondissimi nelle classe dirigenti e tra queste e il popolo, sortito a malapena da una guerra civile sanguinosa con migliaia e migliaia di morti nella lotta contro il fondamentalismo islamico che ha lacerato una nazione ferita e orgogliosa.
Ma non vi è nazione che oggi abbia un rapporto doloroso e difficile con l’Algeria più della Francia. Un rapporto che ha impegnato sempre lo stesso presidente Macron in un’opera coraggiosa di riesame della storia patria che fa onore alla sua cultura e al suo ruolo, ma che non supera nei confronti dell’Italia una barriera che non sarà possibile superare facilmente, per gli interessi contrastanti che si misurano sul piano egemonico-economico e diplomatico nel Mediterraneo e nel Nord Africa: Libia docet. Anche qui nulla è in squadra e pencola senza simmetria: solo un accordo vero, diplomatico, italo-francese di lungo periodo può stabilizzare il Nord Africa con l’appoggio degli Usa e dei sauditi, naturalmente… e quindi un po’ più di linearità non guasterebbe.
A ciò aggiungiamo la quintessenza stessa della nostra situazione di governo. È vero, la “narrazione” (così si dice) dominante sui mass media è che il premierato di Mario Draghi è la garanzia più sicura della nostra forza di contrattazione nell’Ue, ora che il Pnrr ha messo in evidenza la doppia mossa di dare con la mano destra i denari dei sussidi e dei prestiti e con l’altra di dettare tempi, forme e modi delle cosiddette riforme.
Tutte riforme neoliberiste e di disgregazione economico-sociale che dovrebbero iniziare (pensate un po’ che follia e che protervia) dagli ambulanti e dalle spiagge, per terminare con i servizi pubblici locali, calpestando così le più accreditate scuole di pensiero e le più gloriose e funzionanti esperienze di governo pubblico, oppure misto pubblico-privato, delle economie locali. Così sottraendo ai Comuni risorse e prerogative che ancora mantenevano dopo i due cavalieri dell’apocalisse, Pierluigi Bersani ed Enrico Letta, ai quali si deve la distruzione del tessuto urbano-sociale e della stessa vitalità storica dei nostri Comuni, fulcro e origine primigenia dei primati italiani nel mondo.
E qui sorge una domanda. È vero, Mario Draghi era sul Britannia, con molti suoi collaboratori, ma successivamente la sua esperienza professionale più nota è stata quella di presidente della Bce imposto dagli Stati Uniti ai tedeschi ordoliberisti, che lo combatterono per circa un decennio, dopo essersi accompagnati a lui e ad altri angeli della finanza negli anni dell’irrazionale esuberanza borsistica (di cui rimangono tracce nelle macerie di Deutsche Bank, di Commerzbank e di Unicredit). Del resto, le recenti dimissioni del governatore della Bundesbank altro non sono che un formale distinguo di un avversario uscito sempre sconfitto, ma con onore, e che si prepara a seguire una Merkel che è in ritirata come le truppe descritte da Senofonte nel suo immortale capolavoro (l’Anabasi).
E qui ecco di nuovo che l’Italia va fuori squadra: Draghi dovrebbe essere inviso da sempre alla Germania ordoliberista e proprio anche per questo gode dell’appoggio nordamericano, da sempre, almeno quello degli alti circoli finanziari con le loro cuspidi. Oggi esse sono divenute attente a combattere la Cina. A differenza di un tempo e proprio per questo protese a indebolire diplomaticamente ed economicamente una Germania troppo sino-centrica in economia. La Germania, che è sì in ritirata, ma che fa la voce grossa nell’Unione Europea. Orbene, se nel governo di coalizione tra socialdemocratici, verdi e liberali, questi ultimi otterranno – come otterranno – il governo dell’economia, non sarà proprio il sistema di mutualizzazione del debito creato attraverso il Pnrr a dover esser posto in discussione? E chi dovrebbe essere, allora, il primo nemico? Draghi, naturalmente, che da un lato annuncia che è iniziata la nuova era del debito buono per la crescita… ma che dall’altro è l’alfiere del pilota automatico senza tentennamenti… “Complessità e contraddizioni del reale”, si sarebbe detto un tempo. Il profilo di Draghi era (ed è) quello di un “atlantico” convinto, piuttosto che di un seguace della dominazione dell’Ue da parte delle nazioni frugali. Così detta la sua storia.
Insomma, qualcosa non quadra nella narrazione dominante, qualcosa non va per le sicure vie che si son tracciate negli universi simbolici dei mass media. Da qui l’incertezza innanzitutto tra le forze politiche più subalterne all’asse franco-tedesco, rispetto a un’eventuale salita al Quirinale di Mario Draghi, che metterebbe ai ripari la più alta carica repubblicana perché non potrebbe non esservi un’elezione plebiscitaria, con conseguenze stabilizzanti, “istituzionalizzanti”, anche sulla macchina dei partiti che inizierebbe forse un processo di riaggregazione delle forze anche grazie alle elezioni nei termini costituzionali. Che cosa potrebbe succedere se l’Italia ritrovasse una vitalità politica garantita dal Colle?
Anche nelle cancellerie che non vogliono essere troppo disturbate da una nazione che dal 2011 è ormai “fuori dai giochi” in Europa, gli interrogativi sono molti. Per questo l’Italia riacquista con Draghi un nuovo ruolo, non totalmente subalterno, com’è stato sino a oggi. Non si tratta di magia o di superomismo come pare spesso leggendo le gazzette.
La storia non è mai figlia dei complotti, ma sempre di una realtà che non è mai o bianca o nera, ma sempre grigia, sempre sfumata, sempre sfuggente.
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