I capitali nordamericani e dei capitalisti cinesi che possono sfuggire al controllo della Banca centrale cinese e del Pcc lasciano la Cina e si rivolgono prevalentemente verso gli Usa, l’Australia e la Nuova Zelanda. Si tratta di un processo che ha preso le mosse da quando il gruppo dirigente raccolto attorno a Xi Jinping ha inaugurato la cosiddetta politica della doppia circolazione. Essa mira alla creazione di una sorta di zollverein o di comunità mercantilistica che unifichi attorno al (per demografia) possente mercato interno cinese molti dei mercati interni delle medie potenze dell’Estremo Oriente. 



Il Vietnam e l’India, nemici della Cina da secoli, hanno all’inizio opposto resistenza a questo piano, che matura nelle università cinesi da circa un ventennio, ma hanno desistito dinanzi alla decisione dei successori di Obama di abbandonare la grandiosa idea della TransPacific Partnership che aveva invece nel Vietnam – escludendo la Cina – il punto archetipale di una nuova egemonia Usa nell’Indo-Pacifico. Sappiamo com’è andata a finire: con la ritirata Usa dall’Afghanistan, che non a caso è stata seguita dall’aggressione russa all’Ucraina. Oggi Xi Jinping accelera la doppia circolazione simulando stress test che dovrebbero misurare il grado di resistenza cinese a una possibile applicazione delle sanzioni nordamericane alla Russia anche alla Cina, come del resto è già avvenuto per alcune unità finanziarie e gruppi del capitalismo parastatale cinese operanti in Russia.



Come possano evolvere gli eventi dipenderà anche e soprattutto a mio avviso dalla stabilità di Xi Jinping, sempre più contestato dalla vecchia guarda di Deng Xiaoping che controlla ancora la Federazione giovanile comunista e mantiene stretti rapporti con quella “alta diaspora” cinese attivissima in Francia e in alcune comunità cinesi nordamericane e soprattutto sudamericane che non dismettono dal sogno di veder crollare il potere monocratico di Xi. L’attuale leader infatti ha distrutto lo steering committee di una potente direzione collegiale, l’ultima idea geniale di Hu Jintao, che consentì al suo gruppo dirigente di affrontare con successo l’epidemia di Sars che divampò in Cina con grande violenza. 



Nelle sfere del Pcc la sconfitta di Xi Jinping è oggi evidente dianzi al fallimento della lotta al Covid. Il Partito si prepara a una fase decisiva del confronto interno mentre divampa la guerra russa all’Ucraina e gli Usa cercano di fatto di applicare all’Ue e alle nazioni che ne fanno parte una sorta di nuova dottrina Monroe che ha ora il suo campo d’azione non solo in Sud America, ma in tutto il mondo e in Europa in primis. 

La distruzione eltisiniana della Russia grazie ai Jeffrey Sachs di turno e ai Chicago boys provocò per reazione assai prevedibile (basta ricordare gli avvertimenti di Vittorio Strada) ciò da cui oggi siamo minacciati: il neo-nazionalismo grande russo anti-occidentale che trascina il mondo verso una guerra mondiale. Dinanzi a ciò la maggioranza delle nazioni che si trovano nel mezzo della via verso lo sviluppo mondiale capitalistico, guidate dai possenti Stati africani e dal Brasile e dall’India, si oppongono con forza a questa folle strategia, come si è visto nelle votazioni all’Onu.

La conseguenza del multilateralismo a parole ma imposto con le armi in Iraq e in Siria ha non solo favorito le alleanze con la Russia, ma sorretto in Cina la politica neo-maoista di Xi Jinping. È dubbio tuttavia che le sanzioni potranno essere applicate, per il fatto che esse colpiranno in primo luogo le nazioni europee e gli stessi Usa, come del resto la Yellen ha con coraggio inascoltato affermato con forza.

Riportare la ragione nonostante la guerra di aggressione è inderogabile: solo una nuova conferenza di Helsinki può iniziare a realizzare questo disegno. Tutte le nazioni del mondo debbono poter pensare di essere sedute a un tavolo di negoziato. Si riporti il confronto in campo diplomatico. Ma per far questo non si deve più ricorrere alle sanzioni economiche. Esse sono il principale ostacolo alla fine del conflitto, tutto al contrario di ciò che stupidamente si afferma.

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