Come definireste un generale libico che negli anni Ottanta del Novecento, ribellatosi a Gheddafi, è sconfitto e relegato in Ciad e così emigra negli Usa dove risiede una ventina d’anni e ottiene la cittadinanza nordamericana con visite più che frequenti nelle palazzine della CIA di Langley per poi porsi a capo di una parte del blocco di tribù e di potere idrocarburico libico (dopo l’assassino franco-inglese di Gheddafi)?
Naturalmente il blocco di potere è quello russo-turco a prolungamento congiunto di potenza. E naturalmente – a riprova dei frattali scomposti in cui è ridotto il sistema di relazioni internazionali – Haftar – è lui il generale, si fa per dire, di cui parlo – è il messaggero dei russi che si vogliono vedere impegnati – udite udite – nella costruzione di una base navale militare in Cirenaica minacciando il Governo di Tripoli, l’Italia, e di fatto – attraverso il Fezzan – ciò che rimane della Françafrique, che con tanta protervia dominava quel plesso tra Mediterraneo ed Equatore, e che ora, dopo il sogno del franco africano, vede sciogliersi nel deserto sub-sahariano sia i sogni di potenza con il controllo dell’uranio e degli idrocarburi, sia quello di ricattare le nazioni affacciate sul Mediterraneo con la direzione occulta dei flussi migratori.
Ecco le conseguenze controintuitive dell’aggressione imperiale russa all’Ucraina: l’allargamento dell’area del conflitto, così da aggredire ancora per primi – i russi – e su vasta scala.
Ma ciò che sconcerta è il mutevole ruolo internazionale di Haftar, con quell’ombra che questo camaleontismo staglia sul profilo degli Usa come potenza internazionale: una potenza che in tutta evidenza non riesce a produrre egemonia, ma solo dominio e il controllo dimidiato che da questo potere solo fondato sul denaro e sulla forza deriva.
È forse questa una delle principali ragioni dello sbriciolarsi terribile e drammatico del mondo e del suo cadere a perpendicolo nella storia mondiale.
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