La centralizzazione produttiva è la base della centralizzazione politica e istituzionale sempre più necessaria in un’Europa che ha visto, dopo il Trattato di Lisbona, un mutamento via via sempre più marcato del pensiero politico-economico tedesco. Tale mutamento è tuttavia temporaneo ed è alla base della trasformazione graduale, ma indispensabile, di tutta la politica economica europea per il tempo che sarà necessario per superare la crisi pandemica. La politica economica europea è la causa della deflazione secolare che persiste in tutto il mondo e che è determinata dall’abbassamento ormai più che trentennale del saggio di profitto su scala mondiale e dell’eccezionale trasferimento di risorse e di valore dal reddito di lavoro al profitto e alla rendita finanziaria.



Questa trasformazione del capitalismo industriale in capitalismo finanziario ha provocato la divergenza tra le economie europee e quelle nordamericane. Le prime sono dominate dall’egemonia mercantilista tedesca con il suo surplus commerciale che dilava i mercati interni di tutta Europa. Le seconde sono fondate, invece, sull’ampliamento dei mercati interni con surplus permanenti delle importazioni sulle esportazioni: l’ultimo surplus commerciale degli Stati Uniti d’America risale al 1975 e la bilancia commerciale americana è in deficit dalla fine degli novanta del Novecento, in primis con la Cina. Di qui il tasso di risparmio relativamente basso e gli elevati livelli di debito pubblico e societario anche in Usa e in Canada.



La pandemia ha travolto ma non modificato la situazione brevemente descritta. Ma ne ha esaltato gli elementi di disgregazione sociale e di frantumazione delle catene del valore delle imprese mondiali, ponendo in discussione la stessa possibilità di continuare il meccanismo di accumulazione. Solo la generazione di valore capitalistico, infatti, può compensare la necessità dell’aumento del debito pubblico europeo, che è indispensabile per sostenere socialmente, prima che economicamente, la ripresa del dopo pandemia. Di qui la distinzione, elementare per gli economisti classici ma rivoluzionaria per quelli mainstream, tra debito “giusto” e debito “velenoso” che Mario Draghi ha evocato prima di ricevere l’incarico con un tempismo tutto politico. Ma la politica di investimento per via di mutualizzazione del debito è possibile in Europa solo se è coordinata tra gli Stati firmatari dei trattati europei. Essa non può non essere diretta, infatti, a procedere nella continuità della centralizzazione capitalistica e quindi delle catene di fornitura dei flussi produttivi europei e mondiali che hanno nell’Italia un punto di snodo delicatissimo tra Est e Ovest, tra Sud e Nord del mondo.



È questa la ragione profonda della creazione del Governo Draghi. Non si tratta di un governo tecnico: si tratta della necessità di arrestare l’incapacità preclara del Governo Conte 2 di arginare il diffondersi della pandemia e di approntare un piano economico-programmatico in grado di ricevere dalle tecnocrazie europee le risorse monetarie per rimettere in moto sia la domanda, sia l’offerta, sia la stessa riproduzione della vita sociale senza la quale l’economia muore irreversibilmente.

La drammaticità della situazione italiana era ed è aggravata dal fatto che la pressione cinese sulle classi politiche disgregate si faceva sempre più insistente, come sarà confermato storiograficamente negli anni a venire, quando potremo disporre – se qualcosa rimarrà nonostante le distruzioni archivistiche sicuramente già attivate – dei documenti che faranno chiarezza su ciò che è avvenuto nella cuspide delle relazioni internazionali che hanno il loro punto di raggrumazione nei servizi di intelligence.

L’incarico conferito a Mario Draghi deve arrestare la caduta degli investimenti diretti alla crescita mentre proliferavano e ancora oggi non si sono interrotti quelli, invece, diretti alla riproduzione del solo consenso politico. E deve farlo nel concerto sia dei poteri situazionali di fatto teutonici che dominano la politica economica dell’Ue, sia di quelli statunitensi, com’è già accaduto con la Bce, grazie appunto allo stesso Mario Draghi. La storia si ripete.

La rapidità di soluzione della crisi governativa e la scomparsa definitiva del nocciolo duro del Governo Conte sono state, in Italia, la precondizione indispensabile per l’attuazione del disegno qui evocato. Poi si penserà a come meglio riorganizzare la ripresa economica e sociale e la pienezza della vita parlamentare. Ma il vero problema della questione rimane. Rimane la contraddizione – ancora nascosta dalla retorica solidaristica europeistica dilagante – della politica economica dell’Ue. Gli obblighi diretti a garantire dall’alto il rispetto delle regole ordoliberiste sul debito rimangono intatti: il debito dovrà essere rimborsato secondo regole decise dal potere non eletto delle classi dominati burocratiche dell’eurocrazia.

Ha ricordato, tra l’ironico e il drammatico, Gustavo Piga in un’intervista su queste pagine: “Visto che non ci si fida del nostro Paese, anziché dargli le risorse del Recovery fund con una mano e togliendogliele con l’altra nel momento in cui si chiede di ridurre il deficit/Pil del 7% in tre anni, lo si lasci libero di tenere alto il disavanzo fino a quando si possono fare investimenti pubblici utili a rimettere in piedi il Paese”. Ma è esattamente questo che recentemente ha di nuovo richiesto Kristalina Georgieva, direttrice del Fondo monetario internazionale, in una sua minacciosa intervista apparsa il 26 febbraio di quest’anno su La Stampa e che costituisce un’ipoteca pesante sul futuro stesso del Governo. La battaglia che Mario Draghi ha condotto in questi anni alla direzione della Bce per arginare, non eliminare lo si ricordi, i disastri ordoliberisti, deve continuare ora dalla piattaforma ancora in formazione del Governo italico.

Nella recente riunione europea sulla pandemia se ne sono già uditi gli echi. Sarà una battaglia condotta grazie a un’attività di mediazione e di contenimento delle spinte tedesche e di quelle che promanano da economie e società come quella olandese, ossia tutte rivolte al commercio mondiale e alla finanza piuttosto che all’industria, in una dimensione politica e sociale talassocratica, ossia contrassegnata dalle risorse marittime piuttosto che soffocate da quel destino di terra, di incapacità di apertura al mondo del mare tipico dell’Europa germanica.

L’allontanamento del Regno Unito dall’Ue e il declino sempre più grave e drammatico della Francia – l’unica potenza europea con un respiro transatlantico e pacifico che non può più permettersi, così come non può più permettersi il domino post-coloniale africano – non fanno che aggravare le prospettive già incerte dell’intera Europa. La contraddizione tra il destino europeo e il presente dell’Ue si fa sempre più evidente e sarà il vero terreno di confronto di questo Governo, le cui politiche saranno più decisive che mai.

Solo una Costituzione europea che ridoni alle nazioni uno stato di diritto e all’Italia quel ruolo politico a cui può aspirare come stato fondatore dell’Ue, può sciogliere il dramma che questo Governo porta con sé e che deve affrontare.