La Spagna ha annunciato che imporrà una digital tax anche senza ricercare un accordo europeo, ma per iniziativa diretta di un Governo che si è formato dopo una serie di defatiganti negoziati e che si regge su una fragilissima maggioranza. E con una Catalogna sull’orlo del collasso istituzionale perché i suoi leader più noti e protagonisti delle vicende di un indipendentismo di fatto sempre più insurrezionale sono stati condannati a lunghi anni di carcere o si trovano in esilio. Contro questi ultimi stanno procedendo i giudici dell’Alta corte europea con provvedimenti di estradizione che non potranno che infiammare gli animi dei seguaci degli indipendentisti e – di contro – dei centralisti, che sembrano tornati a risorgere in forma trasversale con inaudita forza.
Mentre un alleato storico della Germania si dibatte in queste difficoltà istituzionali e reagisce alla sua crisi di fatto attaccando gli Usa, che avevano intimato ai loro storici alleati di desistere da operazioni fiscali di tal fatta, ebbene la Commissione europea sta dando una mortificante prova di impotenza, unitamente al Consiglio, non riuscendo a raggiungere accordo sul futuro bilancio pluriennale.
L’Europa è attraversata da faglie sempre più profonde destinate ad approfondirsi dopo la cosiddetta Brexit. Si insiste, nella discussione sul bilancio pluriennale, a questo proposito, sui bilanci contabili. Ma si dimentica spesso che nei bilanci non risultano i benefici (o gli ostacoli) che alla crescita e allo sviluppo economico continentale derivano dal regime di libero mercato, che favorisce di fatto le nazioni con cosiddetto “saldo netto” sfavorevole, ossia quelle che ricevono assai meno di quanto versano alle casse dell’Unione – e queste nazioni sono le più potenti se si valuta tale potenza sin base al Pil e alla produzione industriale. La Germania è quella con più alto saldo netto sfavorevole, seguita dalla Francia e poi dall’Italia.
Un tempo la Francia aveva più o meno lo stesso saldo netto sfavorevole del Regno Unito. Ed è esattamente l’uscita dall’Ue di Londra che ha scatenato un conflitto tra nazioni che pare oggi difficilmente sanabile. Manca naturalmente un contributore importante e – mentre si cerca di riempire il vuoto contributivo che si è creato – crescono le richieste dei cittadini europei (come si desume dai sondaggi di opinione e non certo da confronti politici accesi e ragionati su questi temi) di aumentare l’impegno per la sicurezza e per i controlli delle migrazioni. Ma dinanzi a queste esigenze le prime proposte scaturite dall’euro-tecnocrazia sono state quelle di ridurre le sovvenzioni all’agricoltura e alla “politica di coesione”. Di più, e questo interessa particolarmente l’Italia, come tutti i “Sud dell’Europa”, si minaccia di escludere ogni incentivo a sostegno delle nostre regioni, incluso il Mezzogiorno. Inoltre, si propone un’esplicita “condizionalità” nell’erogazione di fondi Ue, subordinandola al rigoroso rispetto dei valori fondamentali dell’Unione o delle regole su deficit e debito pubblico degli Stati. Simili opzioni possono privare le nazioni un tempo beneficiate di somme ingenti, che oggi arrivano dal bilancio Ue e che, a livello di investimenti, non verrebbero di certo compensate dai pur apprezzabili interventi europei per migranti e sicurezza.
Dal confronto aspro che si sta delineando sul bilancio europeo pluriennale emergono tutte le debolezze in cui si è sempre più avvoltolata la tecnocrazia europea e gli Stati che ne decidono le sorti, ossia la Francia e la Germania, alleate sulla carta (Trattat di Aquisgrana docent) e separate, invece, dalla storia e dal rapporto con gli Usa nella praxis odierna. Ma tutto risiede nelle trasformazioni che il progetto europeo ha subito.
Esso è stato originariamente varato con l’obiettivo dichiarato di garantire la pace attraverso una rafforzata cooperazione politica, che doveva essere fondata su un crescente benessere e una stretta solidarietà, così da contribuire a costruire una reciproca fiducia tra “nemici tradizionali”. Questo processo fu costruito sull’aspettativa che tutti i Paesi europei avrebbero tratto vantaggi da una più stretta integrazione economica. Uno sviluppo che doveva inoltre essere socialmente bilanciato e solidamente radicato nelle democrazie nazionali occidentali, per fare da contrappeso ai sistemi economici e politici del blocco orientale. Questo processo radicato verso un progetto sociale, solidale e democratico di cooperazione europea fu quasi immediatamente abbandonato, infatti, terminata la guerra civile europea che imponeva di condurre politiche sociali in funzione anti-sovietica, dopo la “caduta del muro” nel 1989.
Le modifiche ai trattati europei che vi hanno fatto seguito hanno avuto come obiettivo di rafforzare le forze di mercato e la concorrenza tra capitali e sul mercato del lavoro, ridurre la sovranità politica dei singoli Paesi e rafforzare nel contempo il dominio delle istituzioni dell’Ue da parte, volta a volta, della Francia e della Germania, con un peso crescente di una tecnocrazia incontrollabile e votata alla direzione dall’alto delle società europee.
Il risultato di queste modifiche ai trattati ha aumentato la pressione economica e politica sull’originaria cooperazione tra Stati nazionali. Un numero crescente di direttive dell’Ue è stato assunto con una maggioranza qualificata, con la quale gli interessi delle nazioni meno potenti geopoliticamente, prima che economicamente, sono stati soffocati. Le frontiere sono state aperte senza regole democraticamente identificate da un Parlamento non di facciata come è invece quello europeo e la concorrenza economica è stata inasprita e non solo sul mercato delle merci, ma anche in quello dei capitali e del lavoro, con conseguenze destabilizzanti sulla possibilità di condurre delle politiche sociali e distributive appropriate alla realtà dei diversi Paesi.
Il sogno europeo di una pacifica, affluente e socialmente equilibrata cooperazione dentro gli accordi che originariamente furono raggiunti nel Trattato di Roma, si è infranto. L’élite “europea” guidata dai burocrati di Bruxelles, dagli interessi del capitale non solo europeo e da un ceto “alto” per reddito e formazione istituzionale intellettuale, si autoilluse (e si autoillude) che il desiderio maggiore dell’opinione pubblica fosse e sia quello di realizzare gli “Stati Uniti d’Europa”, mediante un’accelerata cooperazione economica e poi politica. L’Europa sociale fu accantonata a vantaggio di un’Europa centralistica, basata sul mercato e dominata dai capitali.
Il desiderio dei popoli europei di continuare sulla strada della giustizia sociale, sia sul piano nazionale sia europeo, è stato sistematicamente spazzato via con affermazioni dispregiative come “nazionalismo”, “populismo” e “mancanza di conoscenza”. In alternativa si è proposto lo Stato europeo competitivo che dovrebbe, al contrario, in conseguenza della globalizzazione finanziaria, rafforzarsi, mentre lo stato del benessere, dopo il “crollo del muro”, è stato via via posto in discussione. Il risultato di questo indebolimento delle democrazie nazionali e delle politiche sociali è evidente: una disoccupazione record e una crescente povertà e ineguaglianza.
In questo contesto il bilancio europeo e la discussione a cui lo si sottopone altro non è che un sistema delle entrate, che se rimane dipendente dai contributi statali, come pare sia inevitabile, non potrà che ingenerare conflitti continui. Va “compensata” l’uscita del Regno Unito, ma i governi nazionali, come si evince dalla stampa europea e dalle dichiarazioni governative, continueranno a voler trasferire alla cuspide eurocratica il meno possibile delle loro risorse statali, per gestire invece da sé quote crescenti dei bilanci nazionali. La Commissione, invece, si orienta su nuove tasse: ma tale politica non fa e non farà che aumentare le distorsioni e le continue elusioni che scaturiscono dalle differenze tributarie tra gli Stati.
Il cane europeo si morde la coda sempre più affannosamente.