La tendenza al cosiddetto reshoring e quindi alla rilocalizzazione sul territorio nazionale di attività in precedenza trasferite all’estero non è un fenomeno pandemico. La pandemia ha solo accelerato un cambiamento di fase del commercio mondiale e dello sviluppo allargato dell’accumulazione capitalistica. Certo, i recenti e pandemici effetti devastanti del virus sulle supply chain globali e sulla fornitura di componenti al manifatturiero sono stati rilevantissimi. In Cina l’80% del Prodotto interno lordo nazionale è stato colpito dal virus. In tutto il mondo, tuttavia, le aziende si stanno riattrezzando per produrre localmente i componenti che negli ultimi dieci anni avevano allocato in Cina.



Le delocalizzazioni, decise una decina di anni fa in base ai costi dalle imprese Usa, per esempio, oggi non sono più convenienti, perché a cambiare è stata – prima della pandemia – la tecnologia, che ha ridotto l’incidenza del costo del lavoro e fatto salire in proporzione i costi di coordinamento e controllo e soprattutto dell’incompletezza dei contratti in una società intimamente corrotta come quella cinese. Le imprese americane hanno investito in nuove tecnologie e negli ultimi anni di economia prospera hanno contribuito a migliorare le condizioni per riallocare territorialmente numerose produzioni. Di qui una ridefinizione degli scenari del commercio mondiale e soprattutto delle grandi catene del valore che interessano la manifattura e che il coronavirus ha accelerato e non provocato.



Sino a prima della pandemia i grandi processi di riallocazione hanno interessato i sistemi del tessile, della moda e dell’abbigliamento in tutto il mondo e in Italia in particolare. Li hanno ora seguiti altri comparti come il medicale, di cui il coronavirus ha fatto risaltare il ruolo e la necessità che i suoi attori restino il più possibile non distanziati per i costi di controllo della qualità e di approvvigionamento, che disvelano logiche competitive certo barbariche, ma che sono state e sono rilevanti. Per quel che riguarda l’automotive, i beni strumentali, l’elettronica e i prodotti in metallo, la loro incidenza sul totale delle rilocalizzazioni degli ultimi anni è stata pari circa al 40% e dovrebbe continuare. I mercati asiatici rimarranno comunque di riferimento dai punti di vista produttivo e distributivo, nonostante l’approssimarsi della crisi strutturale cinese che cambierà nuovamente il mondo.



Dinanzi a questo immenso processo di crisi esogena che colpisce sia la domanda sia l’offerta, il mondo della produzione e dei servizi alle persone e alle imprese – sia dunque la produzione di macchine per le macchine, sia la produzione di merci per le persone – non ha necessità soltanto di stimoli e sgravi fiscali, ma di interventi strutturali di riallocazione e di investimenti di stock di capitale fisso per aumentare la composizione organica del capitale e la produttività sia del lavoro, sia totale del sistema.

Gli Stati Uniti hanno toccato il picco mondiale di questi interventi di reshoring con 1.000 operazioni di “ritorno a casa” dal 2004 a oggi, creando 750mila nuovi posti di lavoro complessivi e iniziando a ricreare – dopo anni e anni di degrado manutentivo – infrastrutture efficienti, così elevando il livello di produttività totale, unitamente a investimenti in ricerca e sviluppo e miglioramento della qualità del cosiddetto capitale umano. Gli incentivi pubblici, negli Usa, sono stati e sono fondamentali.

Questo processo ha confermato le teorie dell’economia circolare, che pongono al centro la convinzione che le produzioni delocalizzate non possono competere per qualità con quelle provenienti da territori forti e ben localizzati geograficamente a corona delle industrie e dei servizi che riforniscono. Il sistema di produzione internazionale fondato su un’elevata frammentazione produttiva che ha originato le cosiddette catene globali del valore con mega–filiere di imprese di nazioni diverse, si è così disvelato, non solo nella teoria, ma altresì nella pratica, intimamente fragile. I beni intermedi prodotti in Cina sono saliti dal 24% delle esportazioni totali nel 2002 al 32% nel 2018 e se si considera che gli scambi di beni intermedi formano sempre circa il 50% del commercio mondale (che già la crisi del 2008 aveva ridimensionato) la flessione si farà sempre più rilevante e il divario di crescita tra produzione e commercio mondiale, che è a fondamento secolare dell’internazionalizzazione della produzione di merci a mezzo di merci su scala mondiale, si va praticamente annullando. E questo sia per il rallentamento del tasso di crescita dell’Ue, afflitta dalla deflazione secolare, sia della Cina, avviata a una crisi tanto del Partito comunista quanto della sua economia già fragilissima che sarà devastante. I fenomeni di rilocalizzazione accentuano questi processi.

La Germania e le nazioni scandinavo-baltiche hanno di fatto perseguito anch’esse tale processo nordamericano, nonostante l’assenza di una Banca centrale europea, grazie al loro basso tasso di indebitamento interno. Una politica che non è stata in grado di perseguire soprattutto la Francia, dotata di una base industriale poco agile e troppo intessuta del colbertismo funzionalistico che la frena nella trasformazione prima evocata per gli Usa (come aveva ben detto vent’anni or sono Bevarez in quel capolavoro di libro ch’era ed è La France qui tombe). Non a caso Alain Minc, una delle menti più lucide con Attali della cuspide del potere francese, ha lanciato l’idea di una sorta di prestito nazionale irredimibile o a cento anni simile al modello lanciato purtroppo finora senza seguito da Tremonti e Bazoli, per supplire, con il risparmio nazionale, alla mancanza di agilità sistemica dell’economia nazionale.

Le nazioni che sono la sostanza del mondo – gli Usa, la Germania, la Francia, financo la Cina in grave crisi politico-economica – si muovono, però, danno segni di vita e di cambiamento. Questo provoca naturalmente contrasti intra–europei, mancando l’Ue di una Costituzione e scatenandosi la concorrenza tra nazioni: tra Francia e Germania che si combattono con alleanze temporanee all’interno dell’Europa e tra Usa e Germania nel mondo.

E qui il nodo è il contrasto oppure la convivenza subalterna nei confronti di una società in disgregazione rapida come la Cina: e questo rende tragica la situazione mondiale. I fronti europei sono chiari. Chi punta sul Mes e sul Recovery fund vuole in futuro porsi alla testa dei processi di controllo funzionalistico che inevitabilmente scatteranno in base ai Trattati e ai Regolamenti europei sulle economie e sulle società che quei piani accetteranno. Le nazioni, invece, che sanno che non potranno guidare la ristrutturazione, Francia in testa e Portogallo e Spagna a corona – con la Grecia ammutolita dalla devastazione teutonica post-crisi del 2008 – puntano sulla Bce per continuare con il sostegno al sistema bancario e l’erogazione dei finanziamenti alle famiglie e alle imprese per quella via, sperando così di evitare la ristrutturazione del debito.

Solo l’Italia è muta e inerme: annuncia e non agisce. Perché? Perché non ha un Governo nazionale e patriottico come tutte le altre nazioni europee e mondiali.

Una correzione a quanto ho or ora detto: esistono altresì coloro che dovrebbero bene operare, ma non sanno far nulla perché mai hanno fatto nulla. Di qui la tragedia.

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