La crisi organica dei partiti italiani ed europei su cui molto abbiamo discusso su queste pagine si sta riversando nell’agone internazionale per via dell’incapacità delle tecnostrutture europee d’intendere quali siano le linee strategiche di fondo che potrebbero consentire al sistema di trattati che legano tra di loro gli Stati europei di affrontare le sfide che vengono dall’orizzonte internazionale. È tipico delle economie centralizzate non saper commisurare le ambizioni in politica estera con le possibilità economiche e istituzionali che consentono di porle in essere. La crisi dell’Ue è quella della discrasia, che sempre più si disvela, tra la necessità economica di espansione internazionale e la struttura istituzionale che impedisce di dar vita a politiche economiche adeguate allo scopo geostrategico. Con sempre più forza può innescarsi un vizio disgregatore. Esso è, del resto, già in atto. Tutto ciò emerge dai fatti che qui brevemente rammento.



Il ministro italiano della Difesa Lorenzo Guerini ha recentemente visitato il Sahel, il Mali e il Niger, con un’intensa serie di incontri istituzionali con le autorità locali e la riaffermazione del valore militare della nostra presenza in quella cruciale regione geopolitica. Dal Sudan alla Mauritania, l’ampia fascia di territorio africano tra il Sahara e la fascia subsahariana lambisce gli insediamenti statuali dell’Africa occidentale e centrale e, a nord, quelli che si affacciano sul Mediterraneo. Una regione cruciale storicamente per l’avvenire europeo, come lo è il Congo, che richiederà un’attenzione spasmodica in futuro, quando l’emergere delle neo-borghesie africane con gradi sempre più elevati di autonomia strategica dal dominio del capitalismo estrattivo internazionale, non potrà non segnare, con quello dell’Europa, il futuro dell’Italia. Una regione difficilissima e cruciale, come dimostra l’emblematica situazione che da anni interessa la regione del Lago Ciad e i conflitti che la devastano.



Il futuro dell’Europa, se non vuole essere schiacciata dalle potenze di terra tedesche e dell’est europeo, è in Africa, come sa bene la Francia che non a caso guida le operazioni della Task Force Takuba, a cui l’Italia ha aderito e che è fondamentale per la lotta al fondamentalismo islamico.

l’Europa dell’Ue dovrebbe discutere di questi temi e commisurare i suoi progetti economici e finanziari rispetto a queste possibilità immense di crescita e alle sfide enormi che queste possibilità comportano, invece di continuare a estenuarsi nel conflitto endemico tra le nazioni cosiddette frugali e quelle che frugali non sono e che non vengono percepite come tali. Del resto, il problema militare batte alle porte dell’Ue con un’insistenza che ora si fa drammatica.



È di qualche giorno fa lo studio del Center for American Progress di Washington, un think tank “with close ties to the Biden administration”, la cui conclusione è chiara ed emblematica: “It’s time for the EU to become a global military power…. urges President Joe Biden – si continua – to encourage the EU to develop hardpower military capabilities and calls on him to abandon decades of opposition to EU defense integration by previous U.S. leaders”. Le spinte affinché si superino le tesi ortodosse di una parte consistente del Pentagono e dell’amministrazione, per cui si doveva impedire quella che si percepiva come un duplicazione della Nato, vanno superate.

È vera l’affermazione per cui l’Amministrazione Biden vuole un multilateralismo fondato sull’impegno dei vassalli dell’imperatore in armi e con tutto ciò che serve per liberare gli Usa da compiti che sentono sempre più confliggenti con quelli prioritari di ricostruire dal profondo la società nordamericana, che rischia altrimenti una situazione tipo quella ch’essa attraversò negli anni Sessanta del Novecento. Il prossimo summit della Nato del giugno 2021 sarà il banco di prova di questa nuova linea di condotta e la ministra della Difesa francese Florence Parly ha già fatto sentire la sua voce in proposito, esprimendo bene le lineari professioni di autonomia a geometria variabile della storica politica estera francese nei confronti tanto degli Usa quanto degli altri Stati dell’Ue.

Ma l’attenzione generale è invece, ahimè, tutta rivolta sia in Italia che nell’Ue, al dibattito a distanza intercorso tra il commissario Gentiloni e il vicepresidente esecutivo della Commissione Dombrovskis, per il quale riprenderà entro fine anno il dibattito per la modifica del Patto di stabilità, la cui applicazione oggi è sospesa fino a tutto il 2022 a causa della pandemia, ma che resta “una delle discussioni più controverse” a livello europeo. La Commissione dovrà, si afferma, “lavorare per costruire un consenso” e rendere possibile la riforma. Ma si è tuttavia anche sottolineato che l’attuale Patto di stabilità prevede già una certa “flessibilità” a partire dal gennaio 2015, quando la Commissione adottò un’interpretazione delle regole che pareva tener conto delle spese per investimenti e “le circostanze eccezionali”.

Gentiloni pone oggi in discussione la necessità delle modifiche al patto, cambiando le regole attuali (i cosiddetti “six-pack” e “two-pack”), anche senza modificare (come invece si dovrebbe) i trattati Ue. Il vicepresidente esecutivo, di contro, pare accontentarsi, dal canto suo, di una nuova “comunicazione interpretativa” della Commissione, come quella del 2015: è un dibattito vero, oppure è un gioco di specchi?

Sembra che si balli sul Titanic. Il tutto mentre sono 13 gli Stati sottoscrittori dei trattati con la soglia del debito/Pil al 90% e ben 26 su 27 sono quelli che superano il 3% del deficit/Pil. Esemplare la visione di Dombrovskis: “Per quanto riguarda il 2023 – ha affermato – vorrei sottolineare che gli attuali orientamenti forniscono una flessibilità sufficiente, all’interno delle regole, per poter trovare il giusto equilibrio tra finanziare la ripresa e assicurare la sostenibilità dei bilanci pubblici… e così – ha concluso – come semplificare le regole, come rafforzarne l’effetto controciclico, sia nei cicli negativi sia in quelli positivi e assicurare la sostenibilità del debito pubblico” saranno gli impegni del futuro.

Il problema è, tuttavia, che a queste dichiarazioni non paiono poter seguire decisioni che soddisfino quella che è la sfida vera che oggi l’Ue ha dinanzi a sé. Mi riferisco alla soddisfazione degli impegni militari che incombono su tutti gli Stati dell’Ue in futuro e che sono ineludibili, se non vogliamo veder sprofondare l’Africa nel caos, e dare così alla Cina la condizione ideale per proseguire nella sua politica di imperialismo del debito e della pressione militare: occorre un cambiamento radicale della politica economica dell’Ue. E dovrà essere una politica dell’offerta e degli investimenti: non vi è scampo. I nodi allora verranno al pettine e un cambiamento di paradigma che non faccia più del debito una variabile indipendente paralizzante sarà ineludibile.

O cambiare (grazie a una Costituzione federale europea e una banca centrale vera e non illusoria) o sprofondare nel caos. È un dilemma che si è già presentato nella storia mondiale.

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