Nell’acuirsi della crisi organica dei partiti che da mesi cerchiamo di seguire e di interpretare su queste pagine amiche, l’ora della verità sembra giungere: la crisi organica si trasforma nel liquido amniotico della protesta. E questo per l’incrociarsi dell’insoddisfazione sociale con il ruolo da sempre svolto da gruppi neofascisti e neonazisti protesi a incanalare la protesta verso limiti extraistituzionali, così da trarne un consolidamento politico possibile con l’emergere – d’altro canto – della protesta per l’insoddisfazione sociale e il timore della disoccupazione che sale dalla popolazione lavoratrice e imprenditrice.
Soprattutto, quest’ultima, quella minuta e dispersa che nel crogiolo della rimessa in moto della mobilitazione collettiva mescola ispirazioni e tensioni e inevitabilmente porta a galla, in superficie, le forze che disorganizzate e atomizzate non sono, ma che, invece, nel disordine prevalgono e spesso di questa mobilitazione collettiva si pongono alla testa. Le scene che si sono viste dinanzi e dentro alla Cgil romana sono antologiche di un poujadismo che riesce a porsi sulla cima dell’onda del malcontento dinanzi all’inerte incapacità delle istituzioni di rispondere al montare tanto dell’insoddisfazione sociale quanto del grado di accettazione del rischio pandemico. Esso non tende ad abbassarsi, ma, prevedibilmente, ad aumentare mano a mano che la ripresa delle attività economiche e sociali dilagherà, così aumentando quei rischi di contaminazione che invece si presuppongono terminati.
La soluzione lenta e graduale ma inevitabile di questa crisi, che ora assume aspetti inquietanti per il dolore sociale che si disvela, altro non può essere che la ricostruzione dal basso della lotta politica. Nel caso italiano ormai è possibile soltanto con un’operazione innovatrice guidata dal vertice istituzionale. Essa può provocare, con il voto e il ritorno alla democrazia parlamentare dispiegata, una trasformazione benefica della vita pubblica e quindi dell’Italia in Europa e nell’Unione.
Assai utile in questo senso è rileggere questa frase di Hegel, uno dei passi iniziali della Filosofia della storia che è particolarmente illuminante per comprendere lo spirito del tempo: “In questi tumultuosi avvenimenti mondiali una regola generale non serve, così come non serve il ricordo di analoghe situazioni, perché una cosa simile a un pallido ricordo è senza forza di fronte alla vita e alla libertà del presente”.
Cosa in particolare ci insegna “la vita e la libertà del presente” nel fare i conti con la particolarmente avanzata disgregazione social-politica-istituzionale dell’Italia in un quadro globale di difficoltà dei sistemi democratici?
Innanzitutto che l’azione di risanamento è ostacolata dall’affermarsi di un pensiero unico planetario che sostituisce “il culto della tecnica” e “la dittatura dei desideri” alla “razionalità critica” (che poi sola può sostenere il reale rapporto con scienza e competenze, e anche un approccio all’ambiente fondato sul rispetto per l’armonia del creato, senza rinunciare a quel compromesso tra natura e umanità che fonda la nostra vita storico-sociale, consentendo alla “persona” di sfuggire a una legge della natura che la prevedeva morta verso i 40 anni) e alla “morale naturale” (cioè una base “morale” della società e delle sue istituzioni su cui poi fondare l’irrinunciabile libertà degli occidentali contemporanei, che mette al bando ogni discriminazione per stili di vita diversi).
La semplificazione del comando dettata dai tempi dell’accumulazione capitalistica e dalla complessità dei problemi posti da uno sviluppo senza precedenti aiuta a sostenere questo “pensiero unico” in forme simili a quelle manifestatesi alla fine dell’Ottocento quando i ritmi del progresso spingevano, con il culto dello scientismo e della dittatura dei desideri, a emarginare i populisti di allora, soprattutto cattolici e socialisti. Proprio la lezione di fine Ottocento-inizi Novecento ci deve insegnare come i conflitti politico-sociali vadano integrati nel sistema e non, invece, emarginati fino alla loro esplosione.
Oggi il pericolo di una guerra continentale del tipo 1914-18 come conseguenza del voler emarginare i conflitti sociali è meno urgente, considerato il peso che ha ancora il ricordo della sanguinosa lezione del Novecento. Anche se l’ex Jugoslavia, l’Ucraina e i Paesi della costa del sud (Libia, Siria, Libano) dello stagno da rospi su cui ci affacciamo (il Mediterraneo) ci fanno intendere come il “nostro mondo” non sia esentato per sempre dagli orrori peggiori.
Ma se non la guerra, la formazione di fenomeni politici straordinari come risposta alla rigidità imposta dal “pensiero unico” è ricorrente, nella difesa dalla centralità del pensiero unico sempre più feroce. Dal caso Dominique Strauss-Khan a quello di François Fillon (per eliminarlo dal gioco politico Laurent Wauquiez parlò della formazione – tra deep state, media e quartieri generali macroniani – di una vera e propria “cellule de démolition”) per giungere a Herbert Kickl, 51 anni, ministro dell’Interno austriaco nel primo governo Kurz, uomo di punta della destra di Fpö, incastrato da una conversazione registrata in cui il presidente del suo partito, Heinz-Christian Strache, forse ubriaco, parlava di tangenti e rapporti con i russi. Proprio nell’ottobre del 2021 casi simili avvengono in Italia con il consulente sui media di Salvini, Luca Morisi, e il capogruppo europeo di Fratelli d’Italia Carlo Fidanza.
È noto a tutti il fatto le variegate cuspidi nordamericane abbiano – all’inizio degli anni Novanta – spesso ispirato soluzioni di questo tipo, extrapolitiche, per liberarsi di uomini e di forze politiche sgradite. Ora questa prassi è tornata, nella crisi organica e nel ribollire della mobilitazione collettiva, ampiamente in voga. E non si può non cogliere in tutto ciò un lavorio dei protettori del “pensiero unico” contro qualsiasi “disturbatore”.
Alcuni opinionisti, peraltro, giustificano questo lavorio perché considerano tutti i movimenti anticonformisti in corso in Europa come un pericolo per la democrazia. Ma costoro sbagliano l’analisi di fondo: oggi non c’è nessun reale “pericolo fascista”, perché movimenti reazionari controrivoluzionari attecchiscono solo quando c’è un reale movimento rivoluzionario in atto: insomma, quando esistono le condizioni per una guerra civile. E ciò non è attuale. Almeno al momento.
Certo c’è la diffusione di tendenze che vanno contrastate, anzitutto di tipo razzista e antisemita: ma l’opposizione a questi fenomeni deve essere puntuale e non generica. Ed espressione di una lotta culturale e non solo politica.
Per quel che riguarda la politica, il problema oggi è integrare il più possibile le forze anticonformiste per far loro assumere un ruolo propositivo non puramente ribellistico. Le soluzioni raggiunte con il lavorio di cui si è detto, invece, lasciano nella società macerie su macerie che possono diventare pericolosissime in fasi di crisi non difficili da prevedere. La lezione di questi anni è che Syriza è diventato un partito di governo, Gianfranco Fini è passato, in tre anni, dal sostenere che Benito Mussolini era il maggior statista italiano del Novecento a essere un punto di riferimento dello “schieramento democratico” contro “l’autoritarismo berlusconiano”, Luigi Di Maio si è tramutato da leader di un movimemto no vax, non Tav, no euro, a uno scatenato sostenitore di vaccini, treni ad alta velocità e moneta unica europea. Proprio perché non esiste la condizione di una guerra civile (che in parte c’era, invece, ancora negli anni 70) un’intelligente politica d’integrazione è meglio dei lavorii sporchi contro “i nemici della democrazia”.
Insomma, la chiave risolutiva è quella del risanamento della politica attraverso un rapporto serio tra cittadini e istituzioni che può passare solo attraverso partiti come comunità di destino. Ma come può realizzarsi questo obiettivo? Da osservatori esterni possiamo solo dire “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”: sarà hegelianamente “la vita e la libertà del presente” a definire le vie di un risanamento, se saranno sbloccati gli ostacoli che lo impediscono.
Come abbiamo spiegato, “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” è l’idea che l’attuale assetto caciquistico dei partiti dove contano quasi solo “i capi”, e non le idee e i rapporti programmatici non clientelari con le forze sociali, si riproduca ancora ininterrottamente. E al momento la via principale perché questa riproduzione avvenga è, da una parte, rinviare il voto popolare e, dall’altra, puntare su un dispiegato proporzionale puro che, nelle condizioni in cui è la nostra nazione, con la nostra borghesia compradora e il peso che attraverso di essa esercitano le influenze straniere con in testa quelle francesi e cinesi, rafforzerebbe un centro politico come “mercato delle vacche”, a cui già assistiamo di questi tempi. Anche soltanto una misura “alla greca” che dia alla prima lista un premio di maggioranza aiuterebbe a uscire dalla logica di trasformismo senza limiti in cui stiamo vivendo. Qualsiasi altro sistema (collegio unico, doppio turno, premio di maggioranz a alla coalizione) può andar bene purché il cittadino possa votare non solo per un partito ma per contribuire alla formazione di un indirizzo politico nazionale.
Naturalmente i partiti non sono solo determinati da una riforma del sistema elettorale: però mettendo in palio la posta dell’“indirizzo nazionale” si contrasta la tendenza caciquista di chi lavora solo per il proprio potere personale. Risolto questo problema è più semplice lavorare per comunità di destino che partecipino alla lotta politica per ideali e non solo per sostenere un ceto politico.
A destra abbiamo detto che la situazione stessa imporrà una trasformazione: il come gli ideali di conservazione divenuti assai compassionevoli in questi anni e di libertà si articoleranno con i problemi dell’oggi (dallo stato dell’economia nazionale alle prospettive dell’Europa) dipenderà da un’indispensabile discussione pubblica che si aprirà dopo il voto particolarmente deludente del 3-4 ottobre.
A sinistra la dialettica che dalla Germania alla Francia alla Spagna si sta sviluppando tra nuove generazioni influenzate dal ’68, oggi in gran parte collocate in un ceto medio-medio/alto e dall’altra rappresentate da Millenials poco integrati nella discussione politica, e l’antico movimento operaio dovrebbe definire anche gli sviluppi del fronte progressista italiano. Con due problemi: quello dei grillini svuotati dagli esiti di una protesta impossibile e che probabilmente saranno assorbiti a sinistra, con l’unico rischio che rafforzino il fronte filocinese già rappresentato da Massimo D’Alema e Romano Prodi; e quello dei cattolici che dovranno fare i conti con una tendenza nichilistica molto presente nella cultura liberal di questi tempi che s’incontra con l’opportunismo politico di tipo zapateriano di Enrico Letta.
Insomma: contando su “vita e libertà del presente” una via d’uscita forse si potrà trovare. Probabilmente indispensabile sarà il ruolo dal Quirinale di un uomo che ha guardato nell’abisso globalista come Draghi e che da questo abisso non si è fatto assorbire. La sua funzione da “Lord protettore” al momento sembra insostituibile per garantire che il processo che auspico riesca con una qualche probabilità di successo.
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