Nelle sue note sulla “crisi organica” – tema su chi ho già richiamato l’attenzione dei lettori su queste ospitali colonne – Antonio Gramsci si soffermava sui caratteri strutturali della stessa crisi. Ed erano “caratteri” eminentemente politici: “In ogni Paese – diceva – il processo è diverso, sebbene il contenuto sia lo stesso. E il contenuto è la crisi di egemonia della classe dirigente, che avviene o perché la classe dirigente ha fallito in qualche sua grande impresa politica per cui ha domandato o imposto con la forza il consenso delle grandi masse (come la guerra) o perché vaste masse … sono passate di colpo dalla passività politica a una certa attività e pongono rivendicazioni che nel loro complesso disorganico costituiscono una rivoluzione. Si parla di ‘crisi di autorità’ e ciò appunto è la crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso”.



Se, invece che alla “guerra”, ci riferissimo alla crisi pandemica che si è abbattuta sul mondo, dovremmo, soprattutto, e non solo per quel che riguarda l’Italia, parlare delle conseguenze che sta provocando l’incapacità delle classi politiche al governo del mondo di dominare la seconda ondata della pandemia. Il richiamo in Italia è venuto da autorevoli esponenti del mondo giornalistico che hanno fatto intendere che il presidente della Repubblica è assai preoccupato della situazione nazionale. Egli, del resto, è l’unica autorità a cui si possa ricorrere in Italia, com’è a tutti noto, in caso di crisi organica del consenso politico, così da poter richiamare tutti, governanti e governati, all’eccezionalità della situazione.



Anche in questo caso si ripropone una delle caratteristiche delle crisi organiche: il ricorso a una variante del “potere verticale”. Esso, in Italia, si è costruito in  questi ultimi anni in primo luogo con la presidenza di Giorgio Napolitano e con il “colpo di Stato” soffice del potere tecnocratico del governo di Mario Monti, processi che hanno profondamente segnato e segneranno tutta la vita della Repubblica. Per questo va in tutta la sua importanza richiamato il recente intervento pubblico di una personalità misurata e distaccata come Paolo Gentiloni. Egli ha suonato l’allarme. E non a caso dinanzi a un’assemblea degli industriali, anch’essi pervasi dalla preoccupazione e colpiti dall’indecisione e dall’approssimazione dell’azione di governo. Governo che ben poco ha fatto, a iniziare dalle scuole e dalla loro riapertura e in merito ai trasporti pubblici e alla misure di medicina preventiva di cui si ritarda l’applicazione per le gravi carenze della medicina cosiddetta territoriale.



Gentiloni è l’interprete più fedele della congiunzione esistente tra il partito dei notabili per eccellenza, ossia il Pd (notabili non del passato, ma del non giuridicamente definito nesso tra Stato nazionale e potere burocratico europeo). Egli, del resto, gode della fiducia indiscussa del Quirinale. L’allarme di Gentiloni disvela la sostanza stessa della crisi organica che sta investendo non solo l’Italia, la Spagna, il Belgio e soprattutto la Francia, ma anche la stessa Germania non solo nel seno della Cdu, ma altresì nella sua estensione di potere all’interno della macchina di governo della tecnocrazia europea, con la minuscola statura di Ursula von der Leyen in primis.

La  manifestazione esemplare della debolezza tedesca e quindi del suo agire “in solitario” è oggi nella gestione del Recovery fund, su cui gli Stati nazionali stanno misurando il loro grado di potenza relativa. I politici tedeschi (anche i loro ceti dominanti dell’economia?) stanno danno prova della loro capacità egemonica. Per esempio decidendo che, a differenza di tutte le altre nazioni, essi vorranno ricevere parte dei fondi raccolti sui mercati internazionali e riversati in forme rocambolesche e complicatissime dalla cornucopia della mutualizzazione del debito, senza ricorso ai sussidi ma solo come prestiti. Una manifestazione di potenza imperiale.

Essi non hanno bisogno di prestiti. E di ciò dobbiamo gioire perché così si disvela la forza dell’economia tedesca e quindi la forza che può derivarne per  tutti i partner europei. Ma ciò aumenta a dismisura la potenza estrattiva della macchina economico–politica teutonica nei confronti degli altri Stati europei e rafforza le spinte anti–atlantiche di quella nazione. Sanno, del resto, le classi dominati e dirigenti tedesche, che anche se accumulassero tutti i debiti necessari per essere sottoposti alle procedure di infrazione europee, nessuna procedura sarebbe mai attuata nei loro confronti. Lo dimostra il caso eclatante del trattamento a loro riservato in merito al non rispetto delle regole sui surplus commerciali che accumulano da anni senza nessun rispetto di quelle regole.

In questo contesto è importante dire ciò che nessuno dice, ossia che ciò non potrà accadere per nessuno degli altri partner europei. Qui si rende manifesta in forma aperta e chiara la forza e insieme la natura del capitalismo estrattivo tedesco, pronto a lasciar dietro di sé anche l’alleato francese. Ecco la crisi organica che si manifesta anche sulla scena europea, con i danni che ne seguiranno.

L’appello di Paolo Gentiloni è, quindi, quello di un uomo politico che avverte la propria Patria (io credo che possegga tale spirito patriottico) dei rischi che su di essa incombono se non saprà ripararsi dalle conseguenze di una gestione non previdente e non consapevole dei rapporti di forza sotto cui si sta svolgendo la partita del Recovery fund: una partita da cui scaturirà il meccanismo perfetto per ri–plasmare le economie refrattarie all’ordoliberismo, come quella italiana, spagnola, greca, portoghese e – di fatto – anche francese.

Su tutte incombe il cavaliere dell’Apocalisse della Cina, pronta a trarre vantaggio dalla disgregazione europea. Un esempio perfetto di quella tecnica “cameralistica”, sì tecnocratica, ma che agisce con la copertura di una politica sottomessa e priva di legittimazione: la quintessenza della tecnica di governo dell’Unione Europea. Una Europa senza Costituzione e senza stato di diritto e in cui vigono solo i rapporti di potenza tra le nazioni. Una tecnica che sta conducendo l’Europa all’incapacità di reagire alla pandemia coordinando le politiche, rigettando quello spirito di competizione che ci sta dilacerando e impoverendo. Una povertà in primo luogo morale, come ogni sera le movide europee ci squadernano sotto gli occhi. Un aspetto delle crisi organiche ancora sconosciuto in questa dimensione transnazionale e di massa e nei confronti di cui nulla si è saputo opporre.