L’annuale riunione della Federal Reserve a Jackson Hole non poteva svolgersi in un momento più drammatico per la storia mondiale. L’anello dell’incontro strategico tra l’islam nelle sue declinazioni statualizzabili e il dispotismo asiatico di matrice cinese sta per saldarsi. L’anello ha la forma del legame strutturale tra il Pakistan e la Cina, entrambi protesi a contendere al dominio nipponico-russo-indiano il controllo dell’Asia Centrale. Fu una strategia che s’iniziò a tessere già negli anni Trenta del Novecento, che interpretarono storicamente la preparazione della Seconda guerra mondiale nell’indo-pacifico, di cui ebbero contezza solo coloro che rimanevano convinti (come Churchill e pochi altri rampolli dell’aristocrazia britannica) che il dominio poliarchico democratico europeo si sarebbe difeso anche nelle giungle e nei mari indopacifici.
Gli Usa tardarono ad aver consapevolezza di tale problema immenso, nonostante gli studi sul potere talassocratico non mancassero. Quegli studi costituirono la base della riflessione dell’unico vero interprete della tragedia che si stava preparando: il grande Nicholas John Spykman (che morì proprio in quei giorni fatali, un anno dopo aver pubblicato nel 1942 il suo fondamentale America’s Strategy in World Politics: The United States and the Balance of Power) troppo poco letto anche oggi perché messo all’indice dai dominanti cosiddetti “internazionalisti”, che hanno condotto la civiltà al disastro, come dimostrano le primavere arabe e ora il crollo degli insediamenti umani stabili nel territorio afghano che – clanicamente – non può riuscire a farsi Stato.
In questo contesto c’è ancora qualcuno che pensa che si possa fare politica economica nelle forme dominanti degli attuali governi dominati dai “terrapiattisti”, ossia coloro che pensano che il superamento di qualche punto del 2% dei prezzi voglia dire inflazione. Se la deflazione secolare si approfondisse con una nuova crisi da eccesso di liquidità – senza inflazione perché i salari restano bassi come non lo sono da mezzo secolo – il disastro sarebbe inevitabile. Per questo il dibattito innovativo che avanza in Francia e negli Usa su una nuova politica economica a difesa dei salari e dell’occupazione è una luce nelle tenebre. Il tapering può certo realizzarsi, ma non potranno cessare gli interventi di sostegno alla domanda privata e agli investimenti – pubblici o privati che siano.
La stessa Ue ha dovuto rendersene conto in un sussulto di ragionevolezza senza teoria, ma che è di già importante come non mai. La Fed ha prima di tutti compreso – invece –, grazie alla struttura del capitalismo monopolistico Usa, che l’occupazione e gli investimenti dovevano rimanere fondamentali e non invece il debito pubblico per guidare la politica economica.
Con l’anello che si sta saldando per la disgraziata campagna afghana, guai se nella politica economica Usa non vincessero la partita gli avversari di sempre di ciò che rimane di quell’ordoliberismo che ha condotto il mondo alla rovina, prima con la sregolazione finanziaria alla Blair e alla Clinton e poi con le teutoniche politiche deflattive export-lead. Occorre, per gli Usa, tenere il punto e non arretrare.
Il futuro sarà – del resto – segnato dalla riclassificazione della potenza nordamericana e delle potenze firmatarie della vittoria nella Seconda guerra mondiale, che detengono le chiavi del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Vaste aree del mondo dovranno mantenere l’ordine e quindi la riproducibilità della società dove ancora esistono degli Stati. Per questo solo un G20 può essere il tavolo dove discutere delle sorti del mondo.
Fortunatamente l’Italia – dove è ritornato sul ponte di comando un gruppo di persone che si sono formate nel tempo del solido e saggio potere democristiano degli Andreotti, dei Cirino Pomicino e di Banca d’Italia – sta facendo la sua parte. Certo: il ruolo italico di vassallo, proprio della nostra storica politica estera, con la caduta della credibilità dell’establishment nordamericano sarà assai più difficile. I vassalli, infatti, contano se gli imperatori sono forti e oggi gli Usa sono nel massimo momento di debolezza.
La prova la si è avuta nella conferenza stampa tenutasi dopo l’incontro tra Lavrov e Di Maio proprio quando si è evocato il G20. Mentre il nostro ministro degli Esteri – con una Farnesina forse disattenta – si è sbilanciato auspicando un appoggio della Russia in merito alla richiesta di un G20 attivo protagonista di un nuovo ordine mondiale, ebbene, Lavrov ha tenuto il punto non solo sul caso Navalny, ma anche sull’autonomia della Russia sempre candidata a co-dominatrice del mondo in un partenariato che deve essere definito da essa stessa e non da altri. Di qui il richiamo di Lavrov ai temi della sicurezza dei confini. Il richiamo è un avviso ai naviganti: non si voglia fare della crisi afghana un motivo di deconsolidamento della dominazione russa sui vassalli confinanti nel plesso pakistano-afghano-cinese. Guai a ripetere nei confronti della Russia l’oltraggio compiuto contro la sua storia e il contributo dato nel corso della Seconda guerra mondiale con la vittoria sul nazifascismo. Senza la Russia sconfiggere i giapponesi in Asia sarebbe stato impossibile. E per la diplomazia russa la storia vale ancora qualcosa nella rielaborazione strategica. Una lezione che dovrebbe servire anche per il rinnovamento del dominio Usa del mondo.
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