Per capire qualcosa in questa transizione infinita a cui è costretta l’Italia, partiamo dalla fine. Dal saluto di Conte, dalla conferenza stampa di addio dal tavolino apparecchiato davanti al Parlamento. “Auspico un governo politico… per operare quelle scelte politiche, eminentemente politiche perché le urgenze del Paese richiedono scelte politiche che non possono essere affidate a squadre di tecnici”. Siamo al paradosso. Un presidente del Consiglio uscente, un professore, che invita il nuovo designato – un super tecnico dal profilo politico – a formare un governo politico e non tecnico. Fatto inusuale per due motivi, il primo di etichetta istituzionale, ormai diventata desueta.



Ma non è questo l’elemento importante. Il fatto è che Conte era un primo ministro non eletto, non era leader di un partito, né un tecnico, cioè un esperto di chiara fama nel suo settore, né un civil servant. Era assolutamente un signor nessuno, fatta salva la sua educazione e il suo curriculum. Cioè non aveva nessun titolo e prerogativa che giustificasse il suo incarico.



Perché si è arrivati a questa scelta? Perché i 5 Stelle non hanno messo uno dei loro a capo del governo? Ne avevano il diritto, per prassi. Perché hanno accettato l’indicazione, quasi un’azione di forza, del presidente della Repubblica?

Il motivo è molto semplice. Perché i 5 Stelle non volevano, né sapevano fare quello che avevano promesso. Perché non erano e non sono, tanto meno adesso, quello che dicevano di essere, cioè un partito rivoluzionario.

Sono in realtà un movimento di opinione confuso e velleitario, anche populista, sintomo di un malessere profondo del paese. I 5 Stelle, scomodando Marx per così poco, sono “l’apparenza della responsabilità”, coloro che hanno “speculato in modo volgare sulla volgarità delle masse”.



Grillo e Casaleggio nel partito del Vaffa hanno reclutato la famosa gente tenuta assieme dalla “psicologia dell’escluso” e del livore proponendo non progetti politici, ma “metamorfosi magiche”. Come diceva Marx, hanno promesso al popolo le miniere della California senza muoversi da Parigi, perché la plebe si fa affascinare dalle trasfigurazioni semantiche, da ogni tipo di “deviazioni sentimentali” (Marx). E che cos’è infatti la promessa di abolire la povertà, o il mito della decrescita felice?

In parole povere, i sedicenti rivoluzionari non sono riusciti a riscrivere la Costituzione formale perché non hanno cambiato quella materiale. Hanno infatti messo al suo posto una finzione, la maschera della rottura. L’eccezione ha lasciato il campo quindi al provvisorio, al casuale, al variabile, alla contingenza spacciata per normalità. Ecco dunque le maggioranze multicolori che hanno sostenuto il governo. Qui sta la contraddizione del loro operato e della situazione del primo e tanto più del secondo governo Conte, che grazie alla pandemia ha ricercato la sua legittimazione attraverso i Dpcm, forzando un meccanismo d’emergenza trasformato in routine. Con il risultato di svuotare il Parlamento, cioè il “club di discussione” (Marx) per eccellenza, l’unico organismo costituzionale in grado di trasformare le diverse idee e interessi in norma e progetto.

Ed ecco che Conte crede di trovare una nuova fonte di legittimazione in quel popolo a cui si appella a reti unificate, che però non l’aveva mai eletto. Con il coronavirus, Conte butta alle ortiche la maschera della normalità e svela l’eccezionalità della sua posizione e la sua autonomia, anche ai padrini della Casaleggio Associati. La strategia del rinvio adottata dal presidente del Consiglio, moderno “tutore della moltitudine” (Marx), è la dimostrazione manifesta del paradosso rappresentato dalla sua ricerca del carisma al servizio del rimando, votata al rallentamento, e non – come ci si aspetterebbe perfino da una sorta di giacobini mancati – ad un’accelerazione e velocizzazione dei processi decisionali, tanto più in una situazione di straordinarietà vera.

Così Conte perde coscienza di dove risieda la sua vera e reale forza, nella sua debolezza appunto, perché la nuova legittimazione popolare è effimera, nasce dalla paura dell’epidemia, è difensiva. Ma si illude di disporre di un reale potere, e forza la mano, ma il giochino rischia di rompersi appena un bambino discolo indichi la nudità del re. Perché l’alleanza con il Pd, Leu e Italia viva non è una maggioranza organica dotata di un qualche straccio di idea. Non è in grado di condurre il paese nelle due scadenze importanti che ci stanno davanti. L’approntamento di un piano per l’utilizzo del Recovery Fund con la relativa gestione dei rapporti con i partner europei, in testa Germania e Francia, e in secondo luogo la costruzione di una maggioranza in parlamento per eleggere il futuro presidente della Repubblica, figura istituzionale diventata nel corso degli ultimi mandati il vero cardine per il funzionamento delle istituzioni. Non è in grado di disegnare una politica economica e del lavoro in un’epoca di trasformazioni eccezionali.

Per prevenire l’attacco di Renzi, la maggioranza giallorossa aveva davanti due strade. La prima, riportare la situazione straordinaria nei binari della normalità politica magari a pandemia allentata e quindi dimostrarsi allo stesso tempo capace di dare al paese un’idea di governo organico non raccogliticcio e contingente. Ed è quello che ha tentato di fare Zingaretti, ma a parole, senza contenuti, in modo cioè apparente, basando l’accordo per il futuro solo sulla volontà concreta di gestione dei fondi europei, cioè sul consenso creato ancora una volta sulla conservazione e sulla spesa pubblica. Gli mancava però un elemento centrale, il consenso di chi detiene i cordoni della borsa. Oppure, questa era la seconda possibilità, qualcuno poteva rompere il gioco, svelare il meccanismo, portare allo scoperto lo stato comatoso del sistema attuale dei partiti, comprese le anime belle di M5s. Ed è quello che è successo.

Draghi allora è la vera eccezione. A presiedere il governo, il presidente della Repubblica sceglie, in accordo con l’Europa, una personalità dal curriculum anche americano, il tecnico per eccellenza che si fa politico, che spazza via la moneta poco buona. La sua forza sta nel fallimento politico del parlamento e trae la sua legittimazione da tre fonti, una formale, il presidente della Repubblica, e le altre sostanziali. Ma in un’Italia con un debito pubblico spaventoso, un’economia in difficoltà, con il ricorso giudicato necessario da parte di tutti i partiti, anche dai rivoluzionari 5 Stelle, ai soldi dell’Ue, risultano ben più importanti le altre due fonti di legittimazione materiale, l’Europa appunto, ed i mercati. L’andamento dello spread è qui a dimostrarlo, a riprova di chi sia Draghi.

Di nuovo, dopo Ciampi e Monti, l’Italia sceglie l’eccezione, sempre in nome dell’Europa. Da qui deriva una domanda. Può un paese, un sistema complesso, essere governato sempre in uno stato eccezionale, facendo leva su attori esterni?

Solo i fatti da oggi dimostreranno la capacità di Draghi di muoversi tra Scilla e Cariddi, tra i dettati dall’estero e le esigenze nazionali, sempre nell’ambito delle compatibilità razionali e ricercando le alleanze internazionali necessarie per una nuova politica economica e industriale, che non veda il lavoro solo come vittima sacrificale e inevitabile delle grandi trasformazioni, dalla rivoluzione informatica a quella energetica.