Giuseppe Conte – tra la crisi coronavirus gestita con Dpcm e messaggi tv a reti unificate, il braccio di ferro vinto con Autostrade sui Benetton e la conclusione favorevole del vertice Ue su Recovery Fund – sembra stagliarsi al galoppo sulla scena politica italiana. Però non si vede il suo cavallo. È cioè diventato in pochi mesi il più importante uomo politico italiano come affondando il coltello nel burro di altre leadership, ma è con quel burro che deve governare.
Il primo “burro” è quel che sarebbe il suo partito: il M5s. Nella vicenda delle commissioni parlamentari è sembrato un insieme di tribù rivali e sbandate. È un movimento chiaramente “in mezzo al guado”: da antieuropeista a “protegé” della Merkel. In particolare Beppe Grillo dal “vaffa” dell’“arrendetevi” lanciato all’intero mondo politico, è passato a “uomo d’ordine” e “garante” di un’alleanza con partiti e partitini. La Rai, accusata dallo stesso Grillo per decenni di servilismo al governo, ora – diventata “grillina” – è un taxi con il motore sempre acceso in attesa di quel che esce da Palazzo Chigi. Nel complesso il M5s è un partito che ha dimezzato i voti dalle elezioni politiche alle europee e dopo aver governato con il leader della destra ora lo manda sotto processo e governa con tre partiti di sinistra. È inoltre oscuro chi davvero comandi e in questi giorni infuria lo scontro interno tra l’ex capo politico (Di Maio), il reggente (Crimi), il fondatore (Grillo) e l’erede di “Rousseau” (Casaleggio). L’unico collante è la paura di nuove elezioni politiche.
Il secondo “burro” è il trio Pd-Iv-Leu: un partito “fratello maggiore” e i neonati da scissioni fatte prima sulla destra e poi sulla sinistra dai suoi due ultimi segretari costretti ora a stare insieme, ma in continua concorrenza. Zingaretti nella speranza della “staffetta” del gennaio 2022 – arrivare a Palazzo Chigi con Conte al Quirinale – persegue la politica dell’alleanza strategica con i 5 Stelle.
Il Pd ha quindi archiviato la polemica decennale contro “antipolitica” e “populismo”, e Goffredo Bettini ora esalta i 5 Stelle come “populismo sociale”: un neologismo con effetto retroattivo al fine di trasformare di colpo quel che era stato additato come degenerazione da combattere in alleato permanente della sinistra italiana. Ancora una volta il Pd di Zingaretti è la dimostrazione che la sinistra a guida post-comunista non riesce a fare altra politica se non quella del “fronte popolare” contro, di volta in volta, il “pericolo della democrazia” di turno. Non è capace di una lettura della crisi e di mettere a fuoco una strategia di fuoriuscita. Va avanti alla giornata cantando “Bella ciao” tra demonizzazioni e autoreferenzialità. Fin dai miglioristi del Pci – come ha sottolineato Andrea Romano sul Foglio – la sinistra liberale e riformista si è sempre sentita, anche oggi nel Pd, “un eroico vascello in acque ostili”.
La “cura di bellezza” del M5s inoltre introduce lineamenti confusi e retrivi nel Pd: l’alleanza “strategica” si traduce cioè in un ricompattamento su assistenzialismo, statalismo e giustizialismo. Tre impegni che sembrano più pesi morti che spinte propulsive, alla vigilia di un difficile autunno sul piano economico e sociale, sia agli occhi di Confindustria sia di Bruxelles. Bonomi insieme a Banca d’Italia e Corte dei Conti chiede abolizione di “quota 100” e del reddito di cittadinanza mentre nei vertici Ue il premier austriaco, Sebastian Kurz, apostrofa l’Italia: “I fondi saranno legati alle riforme e ci renderanno più competitivi oppure saranno sperperati in reddito di cittadinanza e buoni vacanze?”.
Il governo sforna infatti provvedimenti con titoli orwelliani – “Dignità”, “Crescita”, ecc. – con il Pd avvitato in un governo confuso soprattutto sulle politiche del lavoro: le crisi aziendali non sono risolte, ma salgono da 140 a 170 e 3mila navigator da un anno girano a vuoto.
A ciò si aggiunge l’emergenza migranti e proprio sul controllo del traffico dei clandestini dalla Tunisia ora c’è il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, che contraddice gli accordi appena stipulati dalla ministra degli Interni, Luciana Lamorgese.
E Conte galoppa senza cavallo con un governo nato accordandosi sui ministeri, ma lasciando aperti tutti i dossier. Non ha altra via di uscita che il rinvio in attesa delle elezioni di settembre con il Pd che rincorre il M5s che rincorre Salvini e la Meloni: dal Mes ai decreti sicurezza e all’Ilva.