In poco più di una settimana il Vicino e il Medio Oriente hanno ancora una volta sconvolto gli scenari, confondendo ancora di più, se possibile, le strategie, le alleanze e le prospettive in questa porzione di mondo. Il repentino e imprevisto crollo del regime venticinquennale del feroce dittatore siriano Bashar al-Assad, ultimo di una dinastia di reggenti, dalle mani sporche di sangue per la durissima repressione della primavera araba del 2011, è l’ultimo (ma solo in ordine di tempo) capitolo dell’ebollizione di tensioni mai superate. Sono antichi scontri tra mondo sunnita e sciita, dalle differenze incomprensibili a qualsiasi occidentale, basate soprattutto sulla legittimità dei successori del Profeta: gli sciiti sono i sostenitori di Ali ibn Abi Talib, cugino del Profeta e marito di sua figlia Fatima, mentre i sunniti sostengono la legittimità della successione da parte dei primi tre califfi (Abu Bakr, Umar ed Uthman) e la successiva vittoria delle dinastie califfali umayyade ed abbaside. In mezzo c’è un’intera galassia di altri distinguo e di altre caste, dagli ibaditi ai kharijiti, agli zayditi, agli ismailiti agli alauiti di Assad, e altri ancora, tutti islamici ma ognuno con le sue pur piccole peculiarità. E soprattutto ognuno con referenti e alleati diversi.
In questo mosaico, è difficile comprendere cosa sia realmente accaduto in Siria negli ultimi dieci giorni. Di fatto, i combattenti sono guidati dal più potente gruppo di insorti, Hayat Tahrir al Sham (HTS, derivazione Al Qaeda), accanto ad un gruppo di milizie siriane sostenute dalla Turchia (l’Esercito nazionale siriano, indirizzato soprattutto all’offensiva ai curdi, a loro volta vagamente sostenuti dagli Stati Uniti). In brevissimo tempo, hanno conquistato Aleppo, la città più grande della Siria, e Hama, la quarta più grande. E quindi Damasco e i palazzi del potere, lussuosissime abitazioni marmoree, stridenti con le condizioni di vita media, scoprendo anche laboratori per armi chimiche e incredibili fosse comuni. Ma nelle regioni siriane più meridionali vive (o cerca di vivere) la minoranza religiosa drusa, e vanno anche censiti i cattolici e i greco-ortodossi: un miscuglio etnico-religioso che a lungo aveva fatto della Siria un esempio di coabitazione e tolleranza.
Oggi tutto è cambiato: i cristiani in Siria erano due milioni, adesso sono 500mila. Ad Aleppo, prima del conflitto, i cristiani erano circa 150mila, ora meno di 30mila, in calo. La caduta di Assad (e la sua frettolosa fuga in Russia) e delle sue forze lealiste (si calcola un numero impressionante di defezioni e diserzioni a tutti i livelli), però, si dice fosse pianificata da un anno: se fosse così, difficile immaginare l’ignoranza delle intelligence di mezzo mondo, da sempre presenti nel Paese. E quindi si potrebbe perfino arrivare a ipotizzare connivenze o convenienze gestite sottotraccia. È chiaro comunque che la caduta del regime siriano è stato un brutto colpo per i suoi due supersponsor, Russia e Iran, che da sempre avevano sfruttato la Siria quale avamposto anche logistico per i guerriglieri proxy Hezbollah, nel quadro di una grande Persia, di un corridoio sciita che arrivasse fino al Mediterraneo. Con gli Hezbollah impegnati a sopravvivere in un Libano colpito duramente dalle forze israeliane, l’Iran non ha potuto nulla, e oggi per di più si ritrova sotto la neanche tanto velata minaccia Usa di bombardamenti contro i propri siti di sviluppo nucleare. Stessa impasse per la Russia, concentrata in Ucraina e già in procinto di richiamare le proprie unità militari dalle due basi gelosamente costruite in Siria, quella navale di Tartus e quella aerea di Khmeimim.
Le cancellerie dell’Occidente monitorano gli accadimenti, senza azzardare previsioni di sorta, e nel frattempo una colonna di carri armati israeliani si è allineata lunedì scorso ai piedi del sito noto come Shouting Hill, sulle pendici della città drusa di Majdal Shams, nelle alture del Golan settentrionale (ne danno notizia Haaretz e altri organi di stampa locali). Il cielo era pieno di scie bianche di vapore lasciate dai jet dell’aeronautica israeliana durante le loro sortite di bombardamento sulla Siria, ancora in bilico dal crollo del regime di Assad il giorno prima. I giorni su Shouting Hill, quando i drusi su entrambi i lati del confine cercavano di comunicare con la famiglia e gli amici ad alti decibel, sono finiti da tempo.
In una valutazione della sicurezza, il ministro della Difesa Israel Katz ha incaricato l’IDF di preparare le truppe per il dispiegamento sul lato siriano del Monte Hermon per tutto l’inverno, sottolineando l’importanza strategica di mantenere questa posizione in attesa di ulteriori sviluppi in Siria. Ha esortato l’esercito a garantire che fossero fatti i preparativi in modo che i soldati fossero in grado di sopportare le dure condizioni meteorologiche.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha ordinato all’IDF di prendere il controllo dell’area, dicendo che l’accordo di disimpegno del 1974, in base al quale è diventata una zona demilitarizzata, era crollato e i soldati dell’esercito siriano avevano abbandonato le loro posizioni. “Non permetteremo a nessuna forza ostile di stabilirsi al nostro confine”, ha detto Netanyahu.
In un post su X, Katz ha precisato che il Monte Hermon è “di nuovo sotto il controllo israeliano dopo 51 anni”, definendo la manovra come “un emozionante momento storico”. È chiaro che gran parte della Siria e del Libano possono essere osservati da questa posizione strategica. Intanto, da quando il regime di Assad è crollato lo scorso 8 dicembre, Israele ha effettuato attacchi a bersagli in tutta la Siria, prendendo di mira principalmente i siti delle ex truppe governative siriane. L’Osservatorio siriano per i diritti umani sostiene che i jet israeliani durante la notte di venerdì hanno colpito armi e magazzini di ricerca scientifica, nell’area di Masyaf, nella campagna di Hama nella Siria centro-occidentale, e nella zona di Qusayr, vicino al confine siriano-libanese. I bollettini dicono che in poco meno di una settimana Israele ha raggiunto oltre 300 obiettivi militari siriani.
E dunque, turchi da nord, israeliani da ovest, guerriglieri da ogni lato, e tutti che si sentono in diritto di sparare e bombardare, mentre le migliaia di profughi, sparsi tra Turchia, Giordania, Libano sperano adesso di poter ritornare in patria: dalla Turchia, attraverso i valichi di frontiera di Bab al-Hawa e Bab al-Salam, i rifugiati stanno già tornando nel nordovest della Siria. Anche se dall’inizio dell’offensiva, il 27 novembre, in Siria circa un milione di persone è stata sfollata da alcune aree (governatorati di Aleppo, Hama, Homs e Idlib): chissà cosa li aspetta. Va anche detto che tra la fine di settembre e la fine di novembre, la Siria ha accolto più di mezzo milione di persone in fuga dagli attacchi aerei israeliani nel vicino Libano.
In tutto ciò, si stanno moltiplicando i Paesi (Germania in testa, ma anche l’Italia) dove sono state sospese le domande d’asilo dei profughi siriani, nell’attesa di capire meglio la situazione. Ma si sa che l’attesa per un profugo è un lusso mortale.
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