“Anche se non vanno d’accordo, M5s e Pd staranno insieme sino a quando non accadrà qualcosa di imponderabile, come il voto referendario sulla legge elettorale, che il governo Conte sta già tentando di disinnescare”. Lo dice Stelio Mangiameli, docente di diritto costituzionale nell’Università di Teramo, per il quale si va verso un maggioritario con doppio turno di collegio oppure un proporzionale con soglia di sbarramento al 4%, entrambi plausibili. Anche se la strada migliore sarebbe quella “di un maggioritario all’inglese a turno unico e first past the post”. I partiti però non ne avrebbero il coraggio.



Manovra, caso Ilva, Alitalia, riforma della giustizia. Il governo litiga su tutto e Zingaretti chiede che trovi un’anima. Ma dove può trovarla una compagine così disomogenea?

Non credo che in questo Parlamento un’altra compagine possa avere una sorte migliore di questa. Da anni il sistema politico italiano offre delle polarizzazioni fondate sulla contrapposizione forte. Questa era anche la logica del maggioritario all’italiana, che tendeva a vedere nella controparte un nemico più che un avversario.



E tutto è cambiato nel 2013.

Sì. Quando il sistema politico è diventato tripolare con l’ingresso in scena del M5s, di fatto è venuta meno la possibilità di raggiungere maggioranze. Tutta la legislatura passata è stata condotta su un crinale molto pericoloso, con fratture nei grandi raggruppamenti del sistema politico: FI e Pd. Per fortuna la Costituzione non è stata modificata e la legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale. Ciò ha evitato che il livello istituzionale venisse danneggiato oltremisura.

Poi è arrivato il Rosatellum, che adesso ci si appresta a cambiare.



Il Rosatellum ha risentito della confusione di idee che vi erano nel sistema politico, tra proporzionale e maggioritario, per cui ha mancato di dare, nei limiti consentiti dalla Costituzione, una interpretazione della forma di governo parlamentare e di rappresentare uno strumento valido per consentire agli elettori di scegliere per la formazione di una maggioranza e di un governo.

Con quali conseguenze?

La conseguenza è stata una maggiore fluidificazione del corpo elettorale, di cui si sono avvantaggiati soprattutto il M5s e la Lega di Salvini. FI subiva il sorpasso della Lega, nonostante il ritorno in campo di Berlusconi, e il Pd veniva castigato severamente per la gestione Renzi.

Veniamo al voto del 4 marzo 2018.

Dopo il voto del 4 marzo non vi è stata una maggioranza, ma solo contrapposizioni radicali e risentimenti tra le forze politiche. Di qui la fatica per formare un governo, la manfrina del contratto tra M5s e Lega e le difficoltà di ogni giorno nel dirimere l’agenda di governo.

Le scelte del governo Conte 1?

Sono state tutt’altro che risolutive della condizione di difficoltà del Paese: lente e poco efficaci anche le misure del reddito di cittadinanza e di quota 100. L’insicurezza, non solo quella dipendente dall’ordine pubblico, ma soprattutto quella economica è aumentata considerevolmente. Il consenso, perciò, ha continuato a spostarsi a favore delle forze che della sicurezza facevano la loro bandiera e le elezioni europee del maggio di quest’anno hanno registrato questi cambiamenti.

Nonostante il nuovo governo, e così torniamo al punto, le difficoltà rimangono. Anzi sono maggiori.

Che il governo Conte 2, con la nuova maggioranza composta dal M5s e dal Pd, avesse una via stretta era cosa altrettanto chiara. Il Governo, come già accennato, non ha un programma comune tra le due forze, ma registra un posizionamento diverso del M5s sul piano europeo e su quello interno. Partiti con i “gilet gialli”, i pentastellati sono approdati al voto per la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen.

Si sono normalizzati.

Nelle vicende interne hanno lasciato il fronte della protesta contro le istituzioni, tenuto nella passata legislatura – “apriremo il Parlamento come una scatoletta di tonno”, si ricorda? –, e assunto un atteggiamento di complicità che li porterà, se tutto va bene, a votare un Presidente della Repubblica di sistema. In Parlamento sono il partito di maggioranza relativa ma sono sempre più deboli nel Paese. Le prove di alleanza con il Pd hanno dato risultati disastrosi in Umbria.

Un pronostico sui 5 Stelle?

È probabile che alle prossime elezioni possano scomparire, complice anche la riforma costituzionale per la riduzione del numero dei parlamentari.

Non le pare che la segreteria Zingaretti non sia riuscita ad elaborare una nuova immagine del Pd?

Il Pd ha tentato di praticare, in assenza di una di una linea politica credibile, l’antisalvinismo così come aveva praticato l’antiberlusconismo, ma come soggetto di avversione Salvini non è Berlusconi e questo gioco non sta riuscendo. Il consenso non cresce; anzi, il declino non sembra finito; dopo l’Umbria, adesso corrono il rischio serio di perdere l’Emilia-Romagna e a seguire anche le altre Regioni, com’è accaduto ad ogni elezione regionale negli ultimi due anni.

Da tutto questo che conclusioni trae?

Che queste due forze politiche non hanno alternativa; anche se non vanno d’accordo, M5s e Pd staranno insieme sino a quando non accadrà qualcosa di imponderabile, come il voto referendario sulla legge elettorale.

Quale dovrebbe essere il sistema elettorale migliore per garantire rappresentatività e stabilità?

Di una modifica della legge elettorale, dopo la revisione costituzionale del numero dei parlamentari, ci sarebbe stato comunque bisogno, ma l’opzione per un maggioritario all’inglese (turno unico e first past the post) sarebbe formidabile se tutti i partiti, grandi e piccoli, evitassero di truccare il gioco elettorale, come accadde con il Mattarellum, dando luogo a candidature comuni, spartite secondo criteri proporzionali e in base ai sondaggi.

Che cosa accadrebbe con un sistema elettorale all’inglese?

I partiti sarebbero costretti a scommettersi seriamente, cercando candidati forti e credibili per ogni collegio. Per questo sono in atto già manovre per sminare il referendum prima che la Corte lo dichiari ammissibile, tentando di approvare in Parlamento una legge elettorale che modifichi l’oggetto del referendum, di modo che questo non si possa più tenere. Il presidente Conte sta già esortando le forze di maggioranza a muoversi in questa direzione. Bisogna guardare, perciò, oltre la richiesta delle 8 Regioni messa in piedi da Calderoli e cercare un compromesso ragionevole e onorevole.

Guardare a che cosa, a quale soluzione?

Il doppio turno di collegio potrebbe essere una soluzione accettabile; ma, ferme le attuali 27 circoscrizioni e senza i trucchi del Rosatellum e senza dichiarazioni di coalizioni, un proporzionale con clausola di sbarramento al 4% potrebbe andare altrettanto bene.

E quali sono secondo lei le ragioni a favore dei sistemi indicati?

Sono due e pressoché simili per entrambi i sistemi: la prima è che ogni partito sarebbe costretto a correre da solo, ricercando il consenso nei territori; e il secondo è che la stabilità di governo deriverebbe dalla mancanza di concorrenza post-elettorale delle forze politiche che decidono di comporre una maggioranza in Parlamento.

Un’ultima battuta. All’orizzonte si profila la riforma del Mes. L’Italia è già virtualmente commissariata? Oppure lo scenario è ancora più grave?

No, non c’è un pericolo di commissariamento dell’Italia, perché è un Paese grande con una economia che si sta logorando, ma pur sempre una grande economia. Difficilmente può adoperare il Mes senza correre il rischio di fare saltare l’Unione Europea; e questo le istituzioni europee lo sanno bene.

Ma fa bene o male il governo ad aderire alla riforma del Mes?

Assecondare la riforma del Mes, cioè la sua trasformazione in Fondo monetario europeo, come ha capito il presidente Conte, giova all’Italia, anche ai fini delle valutazioni europee di primavera; tanto più che, con il cambio della Commissione, il Governo italiano godrebbe di più di una liaison con l’Europa. Da questo punto di vista, può dirsi che questo Governo avrebbe potuto tentare molto di più con la manovra di bilancio. Se questo non è accaduto, non è colpa dell’Ue, ma della mancanza di un programma di lungo periodo.

(Marco Tedesco)

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