Il Sud Italia ha iniziato la discesa verso quella che sarà la sua “morte” demografica. L’anno 2023 si chiude con un dato negativo di -73.800 abitanti. Per il 2024 il saldo sarà quasi il doppio. Ma è solo l’inizio di un processo ormai irreversibile che porterà in 40 anni ad avere 9 milioni di abitanti in meno di oggi. Sì passerà dagli attuali 13,4 milioni di cittadini residenti nelle regioni del Sud a poco più di 4. Un numero che equivale alla desertificazione di un intero pezzo di Paese.
Siamo i soliti catastrofisti? Il pericolo di essere additati come Cassandre da mettere all’indice è concreto. Il primo tema infatti è perché questi dati non facciano clamore – dati confermati in ordine di tempo dal rapporto Censis e dalla Svimez – e non siano una notizia. Non se ne parla, nessuno mette all’ordine del giorno un problema di queste dimensioni.
A chiedersi il perché di questo atteggiamento apparentemente incomprensibile è il filosofo Aldo Schiavone che ieri dalle colonne del Corriere del Mezzogiorno ricorda come “il potere costituito, di qualunque colore esso sia, quando viene messo di fronte all’evidenza documentata e non controvertibile di un problema grave” risponde quasi sempre allo stesso modo, “ebbene, sceglie il silenzio, preferisce voltarsi dall’altra parte”.
Oltre alla politica – nazionale ma anche locale – impegnata da mesi in una insensata campagna comunicativa votata all’ottimismo, si sono messi anche uomini dell’informazione e dell’economia, che non solo ingigantiscono ogni piccolo “zero virgola” in più per dire di avere ragione, ma operano apertamente una censura verso ogni notizia negativa e verso chi non accetta questo “cambio di paradigma”, come ama pomposamente definire questo ideologico cambio di passo Il Mattino, il principale giornale – almeno così era fino a pochi anni fa – della città di Napoli e del Sud.
L’operazione ovviamente coinvolge tutti e qualsiasi argomento. Ieri, ad esempio, mi ha colpito come la notizia della scarsa presenza di turisti nella via dei presepi di San Gregorio Armeno – praticamente deserta – alla vigilia del Natale sia stata accuratamente sottaciuta, o come sia stato messo il silenziatore alle dichiarazioni del procuratore Gratteri a proposito del ruolo dei social nel lavoro di proselitismo della criminalità organizzata.
Così accade che, usando sempre le parole di Schiavone, “la Campania si trasforma, di successo in successo, in una delle regioni più splendide d’Europa”. Ma perché questo accade? E soprattutto, come reagiscono i cittadini che ogni giorno devono costatare la distanza tra quello che sentono e quello che vivono? Distanza misurabile tra i servizi che peggiorano e i politici che senza vergogna elencano i loro successi.
Senza ora voler cedere a conclusioni grossolane, è evidente che sia il crescente astensionismo che la fuga quotidiana di giovani formati che vanno al Nord per lavorare sono conseguenze coerenti. Senza contare il flusso crescente di chi va altrove per formarsi o chi si rivolge alle strutture ospedaliere del Centro-Nord per curarsi. Basta ricordare la cifra “mostre” di circa 300 milioni che la regione Campania paga ogni anno a tre regioni del Nord (Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto) che provvedono alle cure dei suoi cittadini, che fuggono dalle 5 Asl peggiori d’Italia (dato certificato da Agenas). O il dato di oltre il 30% in meno di iscritti alle università del Sud negli ultimi 20 anni. Ma sono dati che abbiamo ripetuto fino alla noia.
Il calo demografico è come sappiamo il frutto di più elementi combinati tra di loro, dove il dato della decrescente natalità è solo uno di questi. Colpisce ad esempio come sia del tutto ininfluente per il Sud il dato dell’immigrazione straniera che invece aiuta, e di molto, le altre regioni con trend significativi: negli ultimi anni gli stranieri residenti in Italia sono cresciuti ad un ritmo del 20% all’anno, raggiungendo l’8,9% complessivo della popolazione. Ma questo non incide sulle regioni del Sud.
Altro aspetto riguarda la sottovalutazione delle conseguenze del cambiamento climatico che sta portando all’abbandono dei terreni coltivati, sempre meno fertili, con un ritmo di oltre 20% all’anno. Con tutto quello che ne deriva. A riprova di ciò basterebbe leggere i dati del crollo di alcune produzioni strategiche come l’ortofrutta, il vino, l’olio, e molto altro.
Questa situazione richiederebbe ben altro sforzo di quello che oggi è destinato alle politiche di coesione e di sviluppo. Al netto del fatto che in questi ultimi anni hanno contribuito a sostenere l’economia meridionale – come ha precisato Svimez – politiche ormai dismesse come il reddito di cittadinanza o il 110% per l’edilizia, o che presentano qualche incognita sul futuro, come il PNRR. E poi pesa un flusso turistico consistente quanto disordinato. L’abbandono del Sud è la risposta concreta quanto silenziosa a una situazione di sottosviluppo cronicizzata. Può capitare che chi ci vive dentro non se ne accorga. Atteggiamento comprensibile, ma che va criticato e in ogni caso non si può condividere.
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