Come possono i giudizi sulla realtà – numeri compresi – divaricarsi fino al punto di risultare diametralmente opposti? È possibile che di fronte a dati inconfutabili ci sia spazio per letture diverse? Sembra questa la preoccupazione principale che ha guidato gli estensori del Rapporto Svimez 2024. Da qualche tempo, infatti, ha preso piede la moda di contrastare apertamente ogni visione negativa del Mezzogiorno, giudicata per questo catastrofista e deleteria per le prospettive economiche e sociali di questo pezzo del nostro Paese. L’hanno chiamata, con qualche pretesa, “cambio di paradigma”. Il principale interprete di questa campagna è il nuovo direttore del Mattino Roberto Napoletano, che ne ha fatto un suo assillo personale, una specie di missione quotidiana.



Poco importa che lo storico giornale che dirige, passato sul finire degli anni 90 dal Banco di Napoli al gruppo Caltagirone, navighi in acque a dir poco agitate, visti i numeri delle vendite precipitate dalle oltre 400mila degli anni d’oro alle ormai poco più di 10mila copie di oggi. E soprattutto importa meno che il giornale per quanto obbligato a “parlar bene” di Napoli e del Sud debba poi necessariamente dare spazio anche alle quotidiane “brutte notizie” che non possono essere certo nascoste. Dal crescente uso di armi da parte di una delinquenza minorile dilagante, che fa vittime innocenti agli angoli delle strade della movida, alle aggressioni sempre più frequenti nei “pronto soccorso” affollati ai danni di medici e infermieri indifesi, fino all’esplosione di una fabbrica abusiva di fuochi d’artificio a Ercolano e la morte di tre lavoratori in nero o all’aggressione di massa di un’insegnante a Castellammare da parte dei genitori di una intera classe, fomentati in una chat di gruppo da notizie false.



Ma la “pazza idea” di correggere il corso delle cose cambiando il modo di raccontarle ha coinvolto rapidamente la politica, sempre in cerca di dimostrare che grazie al suo impegno ci sono cambiamenti tangibili ed immediati. Questo discorso vale per il governo – fortemente sostenuto dal Mattino – che ad esempio punta a fare del massiccio intervento di mezzi e uomini nel quartiere Parco Verde di Caivano il simbolo di una rinascita; ma riguarda anche il potere locale, pronto a festeggiare ogni piccolo segnale di un’inversione di tendenza, pronti a contrastare ogni versione negativa dei fatti. Negli ultimi giorni De Luca, il presidente della Regione Campania, ha addirittura annunciato querele contro l’Agenas, l’ente nazionale preposto al controllo sul servizi sanitari regionali, rea di aver collocato negli ultimi 5 posti della graduatoria sulla qualità delle prestazioni altrettante Asl campane.



In questo clima la presentazione dell’ultimo Rapporto Svimez ha inevitabilmente subito la “pressione” di una piazza poco disponibile ad ascoltare come stanno realmente le cose. Per evitare l’accusa di passare per i soliti “porta jella” e sacerdoti di un meridionalismo piagnone ormai superato, il rapporto parte da alcuni dati “positivi” messi ben in evidenza. A cominciare dalla buona performance del settore delle costruzioni, spinto in questi anni dal famigerato “bonus 110%”. Settore ormai in frenata e alle prese con problemi legati ad una legislazione confusa e contraddittoria, come insegna il caos scoppiato di recente a Milano.

Importanti risultati sono da registrare – secondo Svimez – anche grazie agli investimenti pubblici finanziati con il Pnrr che, nonostante i ritardi cronici della pubblica amministrazione, ha innescato un incremento di spesa e una aspettativa importante da parte di imprese e investitori. Anche i dati dell’export sono positivi, grazie al traino di alcuni settori come l’agroalimentare. Bene anche il turismo e l’industria culturale. Tutto questo ha contribuito nel 2023 e 2024 a rendere possibile un dato abbastanza inatteso, e cioè un Pil delle Regioni meridionali in crescita maggiore – in proporzione, quindi senza contare i passi indietro registrati in questi ultimi anni – rispetto a quanto realizzato da quelle del Nord.

Inutile dire che gli animi dei “positivisti” si sono subito surriscaldati e hanno usato questi dati per sostenere che siamo ormai già oltre il “cambio di paradigma”: più che una “tendenza” essi sono la “prova” che il Sud va come un treno, e che darà filo da torcere a tutti. Appagati quindi coloro che attendevano impazienti da Svimez i dati per confermare che avevano ragione, ci si può addentrare indisturbati nel “cuore” del rapporto, quella parte che ci introduce ai temi di carattere strutturale di medio-lungo periodo, e ai dati drammatici di una situazione per tanti aspetti ormai irreversibile.

A cominciare dai trend demografici, che come sappiamo confermano i dati emersi negli ultimi anni. Nel 2070 il Sud perderà 9 milioni di abitanti. Sì, avete letto bene, 9 milioni! Un’enormità, frutto della crescente denatalità, di una fuga di massa di giovani qualificati verso mercati del lavoro più gratificanti, di una comprensibile e definitiva mancanza di attrattività delle aree interne. Del resto la carenza di forza lavoro qualificata è il trend di maggiore importanza rilevato su tutto il territorio nazionale e questo non potrà che significare l’aumento della pressione delle zone più forti sulla forza lavoro disponibile, incrementando quel fenomeno migratorio conosciuto in questi anni come “fuga dei cervelli”.

La seconda grande questione riguarda i cambiamenti climatici e i ritardi sul piano della trasformazione ecologica e digitale, che sta mettendo in crisi settori ad alta componente energetica (acciaio, auto) o con un significativo impatto ambientale (chimica, legno, ecc.) e che non sono al momento sostituiti dalla crescita di altri. I cambiamenti climatici stanno mettendo in ginocchio l’agricoltura, già provata dagli scarsi investimenti condotti in questi anni e da mercati sempre più complessi e competitivi, molto selettivi sui temi della sostenibilità.

La terza grande questione è data dalla posizione strategica del Sud sempre più esposta ai conflitti in aree vicine e da un Mediterraneo teatro di uno scontro tra Paesi della riva Sud sempre più poveri e quei Paesi che a Nord, minacciate dai grandi flussi migratori, tendono a creare barriere e alzare muri. Il divario crescente riguarderà nei prossimi anni non solo il rapporto Nord-Sud, ma colpirà anche le aree urbane e le zone interne, e, fenomeno nuovo registrato dalla Svimez, un crescente divario tra le zone tirreniche e quelle adriatiche, a favore di quest’ultime.

Eppure negli ultimi due anni, grazie soprattutto al dibattito sull’autonomia differenziata, il tema del Mezzogiorno aveva ottenuto maggiore attenzione da parte dell’opinione pubblica nazionale. Purtroppo l’arenarsi, dopo la sentenza della Consulta, dell’iter sull’autonomia regionale riporterà il dibattito sul divario Nord-Sud in second’ordine. La minaccia di un referendum che inizialmente era apparso come un pericoloso boomerang si era via via rivelata uno strumento eccezionale per riaprire un dibattito sulle motivazioni reali per rilanciare l’unità nazionale, riportando al centro sia gli interessi del Nord che i bisogni del Sud.

Come sempre il Rapporto Svimez non ha la pretesa di trovare delle soluzioni ma di indicare delle tendenze e provare ad indagarne le cause e le conseguenze economiche e sociali. Il dato che emerge dal rapporto 2024 riguarda tendenze che non trovano nelle politiche attuali un sufficiente deterrente. In primo luogo perché questi dati sono negati da una sterile propaganda su quanto il Sud sia ormai in grado di fare da solo, di ripartire e di risolvere i suoi problemi strutturali con le sue stesse energie. La scelta ad esempio di estendere i vantaggi previsti dalle Zes ad una unica area che coincide con tutto il Sud comporterà a breve una ulteriore difficoltà a gestire politiche di coesione e di sviluppo in aree distinte e con problemi molto diversi tra di loro.

La condizione in cui è costretta ad operare una struttura come la Svimez ricorda molto le grandi abbazie del tardo medioevo. Centri di raccolta di dati e informazioni che sembrano non interessare i loro contemporanei ma che poi si riveleranno assai utili per i posteri. Speriamo che non sia necessario aspettare, per trarre vantaggio dal loro prezioso lavoro, lo stesso numero di secoli.

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