La rivelazione risalirebbe all’aprile 2023, ma, secondo quanto riportato dal Financial Times, Xi Jinping avrebbe confessato a Ursula von der Leyen che gli USA hanno cercato di provocare un’invasione di Taiwan da parte cinese, per arrivare allo scontro. Un tranello, però, nel quale la Cina popolare non è caduta. Parole che diventano pubbliche a più di un anno di distanza e che anche per questo, spiega Massimo Introvigne, sociologo, fondatore del Cesnur e del sito Bitter Winter, vanno annoverate tra quelle che alimentano la propaganda.
Certo, il tema di una possibile invasione cinese di Taiwan rimane, tanto che alcune grosse aziende USA avrebbero chiesto alle società di Taipei che forniscono loro microchip di spostare la loro sede fuori dal Paese per evitare che finiscano sotto il controllo di Pechino. Ma niente sembra sostanzialmente cambiato da quando Xi Jinping, nel 2013, assunse la guida del Paese. I cinesi, prima di attaccare, vorrebbero capire se gli americani interverrebbero o meno a sostegno di Taiwan. Per saperlo, bisognerà aspettare almeno la conclusione delle elezioni americane, anche se Trump, ora in testa ai sondaggi, sarebbe un presidente ad alto tasso di imprevedibilità.
Xi Jinping l’anno scorso avrebbe detto alla von der Leyen che gli USA premono per una guerra contro la Cina su Taiwan: che peso dobbiamo dare a queste rivelazioni?
Sono dichiarazioni che escono a scoppio ritardato. Francamente, non vedo grandi novità nella situazione di Taiwan. Ci sono schermaglie continue che vanno avanti, volendo guardare, dai tempi di Mao Tse-tung, sicuramente da quando Xi è al potere. Lasciano il tempo che trovano e sono giocate sui tavoli internazionali a scopo più che altro propagandistico. Che cosa succeda veramente nelle segrete stanze cinesi non lo sa nessuno.
Dopo l’insediamento del nuovo presidente taiwanese William Lai, che i cinesi definiscono un pericoloso separatista, la pressione militare, e non solo, da parte di Pechino è aumentata?
La pressione c’è, ma siamo ancora su un piano ampiamente propagandistico. Il nuovo presidente non dichiarerà sicuramente l’indipendenza. Non ha la maggioranza in parlamento, ma in realtà non lo vuole fare, perché nessuno ha interesse a rovesciare il tavolo fra Cina e Taiwan. Non voglio dire che chiunque fosse stato eletto avrebbe mantenuto la stessa politica, perché il presidente attuale è più “falco” rispetto alla Cina del suo competitor del Kuomintang, ma ci sono delle regole non scritte che tutti rispettano: né il Kuomintang vuole la riunificazione con la Cina, né Lai vuole veramente una dichiarazione di indipendenza.
Quindi siamo ancora a livello di schermaglie?
Sì. Certamente vanno tenute in considerazione, perché c’è la volontà di Xi Jinping, prima di morire, di arrivare alla riunificazione, così come c’è la volontà dei taiwanesi di resistere sperando in un appoggio americano. Ogni piccola dichiarazione va presa sul serio, ma non ci sono modifiche drammatiche di uno scenario che almeno dal 2013, dall’inizio del mandato di Xi come presidente, rimane sostanzialmente lo stesso.
Il Pentagono ha annunciato una fornitura di 360 milioni di dollari di armi a Taiwan, mini missili e droni: gli americani potrebbero veramente finire per scontrarsi con la Cina per difendere l’isola?
Tutti sono per lo status quo: aggiungere un’altra guerra a quelle che ci sono in questo momento non conviene a nessuno, checché ne dica Xi Jinping. Il problema è un altro: quello su cui tutti speculano, compreso il presidente cinese, è che cosa farebbero gli americani se lui invadesse Taiwan. Non lo sa nessuno: dipende da chi vince le elezioni americane, da che pressioni subirà il nuovo presidente da comparti anche del mondo economico e finanziario statunitense. Il motivo per cui Xi non invade Taiwan è perché non ha risposte a queste domande. Anche con le forniture americane, i taiwanesi non sono in grado di vincere una guerra contro la Cina popolare. Se i cinesi da molti anni non attaccano è perché gli americani non hanno mai detto loro con chiarezza né che parteciperebbero a una guerra, né che non parteciperebbero.
Nvidia, Intel, Apple, grossi clienti di TSMC, l’azienda leader nel settore dei semiconduttori, avrebbero chiesto alla società taiwanese di spostare la sua produzione fuori dal Paese per evitare il rischio che la Cina la controlli in seguito a un’invasione. Il mondo economico è preoccupato per questo scenario?
Un atteggiamento prudente, quando sono in ballo interessi miliardari, è comprensibile, ma la verità è che nessuno sa cosa succederà. Forse qualche cosa di più si potrà capire, appunto, dopo le elezioni americane: ma se avremo Trump, ci sarà un signore che cambia idea molto spesso, con un ampio margine di imprevedibilità.
Viste le sue dichiarazioni bellicose contro i cinesi, il tycoon potrebbe prendere in considerazione l’idea di uno scontro?
Potrebbe anche dire: “America first, non ci occupiamo di politica estera”. Potrebbe dire tutto e il contrario di tutto.
Da Taiwan, però, arrivano i microchip per tutte le più importanti aziende USA e occidentali: un problema non da poco.
Anche su altri teatri Trump, qualora eletto, avrà una pressione dei militari, dell’intelligence: non è che può cambiare la politica estera americana svegliandosi un mattino. Tuttavia, aumenta il tasso di imprevedibilità. E quando ci sono questi rischi all’orizzonte, le grandi aziende tendono ad adottare un atteggiamento conservativo: pensano che sia meglio non avere le fabbriche dove ci si può trovare poi nell’occhio del ciclone.
(Paolo Rossetti)
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