Con l’ultimo decreto sostegni si chiude la fase dell’emergenza e della risposta assistenziale alla crisi. Il deficit straordinario aumenta di altri 40 miliardi di euro; 12,4 dei quali a fondo perduto. Il bilancio per le finanze pubbliche vede l’indebitamento dello Stato crescere di 217 miliardi a marzo 2021 rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, quando è scoppiata la pandemia. Il debito ha superato i 2.644 miliardi di euro; rispetto al prodotto lordo era balzato dal 134,6% del 2019 al 157,5% nel 2020 e dovrebbe sfiorare il 160% quest’anno. Una percentuale e un valore assoluto che preoccupano i mercati o meglio chi presta i soldi al Tesoro, tanto che lo spread è tornato ad aumentare. Si tratta di poco siamo ancora appena a 116 punti base (1,16%) tra i Btp decennali italiani e i Bund tedeschi, tuttavia la curva si è invertita.
Ha influito anche la nevrosi da inflazione che, secondo i migliori analisti, dovrebbe essere passeggera, tuttavia i rumor sui mercati sono venticelli pronti a diventare temporali, come la calunnia nel Barbiere di Siviglia rossiniano. Perché tutto questo debito non diventi un pericolo, occorre che l’Italia torni a crescere in modo robusto e per diversi anni, non basta il rimbalzo che molti (e tra essi il Governo) si aspettano nel prossimo trimestre.
E qui veniamo alla nuova fase che si apre fin da domani, la fase della ripresa e delle riforme, nella quale la politica tornerà a recitare una parte rilevante. Lo si è già visto nei giorni scorsi sulle tasse e sulla giustizia, due riforme chiave sulle quali non c’è ancora nulla di concreto. Sono tiri di posizionamento, bandierine agitate dall’uno e dall’altro, ma non sono comunque spari a salve. Mario Draghi dovrà usare tutta l’intelligenza politica che ha già mostrato molte volte nella sua carriera: alla direzione generale del Tesoro, alla Banca d’Italia e soprattutto alla Bce.
Questa settimana il Governo dovrà definire le norme sulle semplificazioni e mettere in chiaro la governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Un dossier, come si può capire, squisitamente politico. Sappiamo che la plancia di comando è a palazzo Chigi e l’intera macchina ruoterà attorno al ministero dell’Economia, dunque a parte Draghi l’altra figura chiave è il ministro Daniele Franco, il quale ha affidato al Ragioniere generale dello Stato Biagio Mazzotta il ruolo di coordinatore e interlocutore unico dell’Ue. Tra l’uno e l’altro ci sarà una “cabina di regia”, come prevede lo stesso Pnrr. Sarà una struttura tecnica e agile o una stanza di compensazione nella quale i partiti eserciteranno un ruolo importante attraverso i loro “capi delegazione”, cioè un vero e proprio direttorio?
Riassumendo, possiamo dire che la prima fase di attuazione del piano riguarda la realizzazione degli interventi e spetta ai ministeri, alle regioni e agli anti locali, nell’ambito delle rispettive competenze. La seconda prevede il coordinamento centrale per il monitoraggio e il controllo, in relazione all’attuazione del Pnrr, con un rendiconto da inviare alla Commissione europea. Il punto di contatto sarà nell’apposita commissione che verrà istituita presso il ministero dell’Economia. La terza fase è la sala di controllo a palazzo Chigi ”con il compito di assicurare il monitoraggio dello stato di avanzamento del Piano, il rafforzamento della cooperazione con il partenariato economico, sociale e territoriale, e di proporre l’attivazione di poteri sostitutivi e le necessarie modifiche normative per l’attuazione delle misure”. La definizione, come si vede, è abbastanza complessa da risultare confusa e nascondere frotte di diavoletti in ogni dettaglio.
Della cabina dovrebbero far parte i rappresentanti degli enti locali e della conferenza delle regioni, ma nemmeno le parti sociali vogliono essere tagliate fuori. Insomma, rientra dalla finestra tutta la farraginosa struttura decisionale che abbiamo già conosciuto, il rischio è che si crei una sorta di Cipe (il comitato interministeriale della programmazione economica che aveva segnato la prima repubblica) neo-consociativo: sarebbe l’anticamera del fallimento.
Draghi dovrà certamente dar retta alle spinte che vengono dalla coalizione che lo sostiene, così come alle naturali pressioni del Parlamento e delle istituzioni locali, ma guai a creare un governo nel governo. Dunque, massima attenzione e massima sapienza politica. Sulle tasse la scorsa settimana Draghi ha respinto a sinistra Enrico Letta con la sua patrimoniale per i giovani e a destra Matteo Salvini che ha riproposto la flat tax. E ha riproposto una riforma complessiva che salvi la progressività dopo aver disboscato la giungla fiscale e riportato equità in un sistema dove sempre meno contribuenti pagano sempre di più. Anche sulla giustizia sono cominciati i conflitti d’interesse e gli scontri ideologico-politici prima ancora di conoscere che cosa farà la ministra Marta Cartabia, però il capo del governo si è sottratto al tiro incrociato, inoltre ha glissato con eleganza sul Quirinale, la partita che divide più di ogni altra, con la spinta di Salvini per portare Draghi sul Colle e quella opposta di Letta affinché questo Governo arrivi alla fine della legislatura così com’è. Ma fino a quando Draghi riuscirà a tenere la barra al centro, saldamente stretta nelle sue mani?
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