Certo, le elezioni di quest’anno in Usa sono state “storiche”, ma in che senso? Parliamo della storia piccola, di quella grande, o di quella futura? La risposta è: sì, sì e sì.
Cominciando dalla storia piccola. Poche settimane prima delle elezioni avevo condotto attraverso alcune conversazioni telefoniche una minuscola inchiesta rigorosamente non scientifica con cinque italiani differenti per sesso ed età ma tutti docenti o ex-docenti in istituzioni statunitensi e inoltre in possesso anche della cittadinanza americana, che stavano allora votando per corrispondenza dall’Italia o dalle loro residenze in vari stati degli Usa. Risultato: un deciso voto per la Harris, un altrettanto deciso voto per Trump e tre voti esitanti (tipo “turandosi il naso”) per la Harris.
È pertinente anche una sesta dichiarazione risalente alla scorsa estate, durante una conversazione ai margini di un congresso in Svizzera. Una professoressa con doppia cittadinanza (tedesca e americana), docente negli Stati Uniti, se ne uscì con un’osservazione che non aveva nulla a che fare con quello di cui stavamo parlando in quel momento, una di quelle piccole esplosioni del preconscio che sono sempre significative: “Certo che, se Trump non vince, ci sarà una rivolta” (che era esattamente il contrario di quello che tanti colleghi andavano ripetendo da tempo, paventando quello che sarebbe accaduto se Trump avesse vinto). Ecco ciò che quei “sondaggi” fatti alla buona rivelavano: le piccole crepe nel muro dell’intellighenzia – lievi esitazioni, esternazioni senza contesto (apparentemente) e senza seguito (allora) – che i giornaloni e i grandi media sembravano non voler osservare, e che facevano presentire il risultato del 5 novembre.
La storia grande. L’avanzata degli homines novi come Trump verso il potere è iniziata ben prima che lui comparisse all’orizzonte. Si potrebbe dire che sia cominciata già al culmine della fortuna delle dinastie democratiche. Quando per esempio, il 20 gennaio 2009, ci arrampicavamo su e giù per le scalinate del campus di Columbia University cercando di guadagnare la vista migliore dello schermo gigantesco su cui si proiettavano le immagini dell’inaugurazione di Barack Obama come 44esimo Presidente degli USA. Essere in qualche modo presenti a certi avvenimenti non vuol dire comprenderli meglio (questo lo fanno gli storici nella quiete dei loro studi); significa però sentirli sottopelle, in quel rapporto istintuale e muto con cui le folle comunicano al loro interno.
Non ci dicemmo nulla, infatti: ma ognuno sentiva una lieve, non-detta delusione per quel discorso sbiadito. L’homo novus Barack Obama (doppiamente tale: per la sua originaria posizione nella gerarchia sociale, e per il colore della sua pelle) ci aveva fino ad allora entusiasmati con una serie di discorsi fiammeggianti, quelli che lo avevano portato fin su quel podio. Ma da lì, adesso, ci stava comunicando che i tempi del fuoco-e-fiamme erano passati; si trattava di sfumare la differenza, e le differenze, cioè di essere homo non troppo novus.
L’aurea mediocrità della presidenza Obama si rivelò poi chiaramente al secondo mandato, e da quel momento il Partito democratico cominciò a perdere la bussola; così che nessuno, o pochissimi, comprese il nuovissimo homo novus: quel Donald Trump che in Italia, salvo errore, solo un volpone giornalistico come Vittorio Feltri e un osservatore impolitico sottolinearono come plausibile nuovo presidente.
Poi, dopo il primo mandato di Trump – i cui punti positivi si vedono soltanto ora, finita l’era dei pregiudizi rampanti, allora ripetuti da tanti pappagallini italiani – entrambi i contendenti persero la tramontana. I democratici non trovarono di meglio che arruolare un uomo fragilizzato, che pure aveva avuto il suo fascino (ricordo ancora, tanti anni or sono, il suo accattivante sorriso un po’ sghembo e malizioso, che stimolava le mamme a porgergli i bambini da baciare), assegnandogli un ruolo che nel 2020 egli non era più un grado di sostenere (fu la polena di una nave che faceva acqua).
E a quel punto – “A coloro che vuol mandare in rovina, Giove toglie prima di tutto il senno”, dicevano gli antichi – invece di organizzare elezioni interne per un candidato credibile, come per esempio Gavin Newsom, governatore della California, che, più negava di voler essere candidato più si capiva che ne aveva tanta voglia (e infatti adesso è così corrucciato che minaccia di blindare il suo Stato come fortezza anti-Trump), i dirigenti ricaddero sulla scelta che tutti sappiamo. E Trump, che dire? Dopo una forte campagna Trump cadde, per un lungo momento, nel delirio che prima o poi è la nemesi di tanti politici di talento: l’illusione di far lezione alla realtà invece di servirla – servirla nello stile politico per eccellenza, quello di Arlecchino Servitore di Due Padroni che sa prendere il peggio come il meglio.
Ma quello che accadde dopo, appartiene in parte al dominio della poesia; la quale è utile, se non indispensabile, anche per capire la politica. Fu il momento in cui si delineò la straordinaria parabola di Trump dal 2016 a oggi: prima un forte primo mandato, poi il mandato rifiutato, e infine (per la seconda volta soltanto nella storia del Paese) uno schiacciante consenso e un secondo mandato “fuori tempo massimo”. Come non vedere che questo è lo schema classico di ogni commedia drammatica (la vita imita la letteratura), da Shakespeare fino ai film hollywoodiani: una felice situazione iniziale (atto primo), poi un suo brutto rovesciamento (atto secondo), e infine il rovesciamento di quel rovesciamento (atto terzo e finale)? Non bisogna mai sottovalutare le intuizioni del pubblico: quegli americani che (laureati o no) erano in contatto con questi nostri tempi hanno cominciato a sentire aria di terz’atto, e si sono buttati a scriverlo.
La storia futura (o almeno del futuro prossimo). Ma anche così limitata, questa storia è tanto vasta che bisogna farla breve. Come possiamo seriamente pensare il dopo-elezioni se non poniamo al suo centro l’esigenza della pace? C’è prima di tutto, ovviamente, la necessità di trovare un modus vivendi tra il popolo dei vincitori e quello degli sconfitti, ma le ovvietà sono generalmente ingannevoli; la vera linea divisoria infatti passa all’interno di questi due popoli e riguarda due idee apparentemente simili ma in realtà molto diverse: solidarietà e fratellanza.
La prima è un’idea integralmente secolare, che contiene inevitabilmente una (piccola o grande) vena di polemica: è la vicinanza collaborativa di un gruppo di persone che sentono di dipendere soltanto dalle loro forze. Vicinanza che generalmente implica la necessità di combattere un altro gruppo. Questa è la bandiera che garrisce fra i Democratici (ma non solo): i Democratici che – anche a prescindere dalle loro frange più radicali – hanno scoperto la modernità dell’agnosticismo. L’altra bandiera sventola fra i Repubblicani (ma non solo), e la sua parola d’ordine contiene necessariamente qualcosa di più alto: come si può parlare di “fratelli” senza evocare l’idea di una paternità e maternità in termini non puramente materiali?
Qui non si evoca, naturalmente, uno scenario in cui queste due idee si scontrino (altrimenti sarebbe uno dei tanti casi in cui il discorrere di pace diventa solo un modo più raffinato per parlare di guerra). La realtà è che, nella popolazione dei pacifici (che ci si augura sia vasta, all’interno del popolo americano), queste due idee di pace continueranno ad avvicinarsi e allontanarsi, a distinguersi e a fondersi. Ed è da questo delicato intreccio che dipenderà il tono etico (c’est le ton qui fait la chanson) del nuovo tempo americano.
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