La Turchia guarda ai BRICS. Ha forti legami con l’Europa, appartiene alla NATO, ma è interessata al cartello di Paesi che si stanno coagulando intorno a Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Lo ha detto il ministro degli Esteri di Erdogan, Hakan Fidan, al termine, guarda caso, di una visita in Cina che ha portato alla firma di una serie di accordi tra i due Paesi.
Una presa di posizione, spiega Valeria Giannotta, direttore scientifico dell’Osservatorio Turchia del CeSPI, che suona un po’ da monito soprattutto per l’Unione Europea, incapace di risolvere gli annosi problemi legati all’unione doganale con Ankara. L’Europa rimane il primo partner commerciale per i turchi e questo è un elemento che continua ad avere un grosso peso, ma aprendo alla possibilità di altre alleanze, Erdogan vuole far capire che la Turchia ora è abbastanza autonoma da poter guardare anche in altre direzioni rispetto a quella occidentale.
Come mai la Turchia sembra stia prendendo in considerazione l’idea di aderire ai BRICS? Era nel programma di Erdogan o è un’ipotesi che si sta facendo avanti adesso?
È un’ipotesi formulata in occasione della visita in Cina del ministro degli Esteri Fidan, che parteciperà, credo come osservatore, a una riunione dei BRICS in Russia la prossima settimana. A livello istituzionale non c’è nessun programma, la Turchia è legata all’Occidente. Con l’Unione Europea, però, c’è questa grande pendenza, che va avanti da anni, dell’ammodernamento dell’unione doganale. Si è sperato di risolverla dopo l’accordo sui migranti del 2016: tra le condizioni c’era proprio l’ammodernamento della struttura da parte di Bruxelles. C’era attesa anche per l’ultimo Consiglio d’Europa, in cui però alla fine non si è trattato l’argomento. Per questo è ormai quasi una prassi che i policy maker turchi dicano di avere delle alternative a questo contesto, nonostante i legami fra Turchia e blocco occidentale siano imprescindibili: il principale partner commerciale è l’Europa, poi ci sono gli USA, la Cina, la Russia e compare anche l’Italia.
Ankara punta ancora a essere un punto di riferimento sia per l’Oriente che per l’Occidente?
La Turchia da qualche anno cerca di giocare un ruolo di balancing actor fra un mondo occidentale sempre più in crisi, che Erdogan accusa di essere inconcludente, e tutta un’altra parte di mondo. All’interno dei BRICS probabilmente la Turchia mira a raggiungere l’obiettivo dell’attuale amministrazione Erdogan: rappresentare un punto di equilibrio tra due mondi che sembrano sempre più distanti.
Questo ammiccamento con i BRICS può essere visto come forma di pressione nei confronti della UE perché risolva le questioni aperte con Ankara?
Più che una forma di pressione parlerei di una retorica pungente: da tempo i turchi dicono che, pur ancorati all’Europa e a un sistema liberale, hanno delle alternative a tutto ciò. In questa ottica la Turchia si è un po’ erta a portavoce del Global South, di quei Paesi che hanno economie che si stanno sviluppando. In tutto questo si legge, naturalmente, anche una critica verso un sistema occidentale che non è riuscito a capitalizzare la presenza della Turchia: l’ammodernamento dell’unione doganale andrebbe a vantaggio anche della stessa UE. C’è un’ipocrisia di base nell’atteggiamento europeo: si sapeva fin dall’inizio che la Turchia non sarebbe mai entrata nella UE a pieno titolo, per la questione di Cipro e perché l’asse franco-tedesco subito dopo l’avvio dei negoziati aveva proposto qualcosa di diverso, una partnership privilegiata. E parliamo di una Turchia che non è quella di oggi, con uno zelo più democratico e liberale.
Ma l’economia della Turchia ha bisogno dei BRICS per sostenersi ed espandersi?
Ha dei tassi di crescita molto alti, quest’anno intorno al 5%: ci sono difficoltà ma sono finanziarie, secondo i dati macroeconomici continua a crescere ed esportare.
Ankara ha già rapporti con i singoli Paesi BRICS?
Ha rapporti molto stretti: con la Cina in questi giorni sono stati siglati diversi accordi e da tempo ci sono investimenti cinesi in Turchia. Dai Paesi del Golfo c’è un afflusso commerciale di fondamentale importanza. Ci sono legami anche con i Paesi africani, anche in considerazione del fatto che la Turkish Airlines viaggia veramente in tutto il mondo. Con il Brasile ha un rapporto privilegiato. Nel comparto difesa, infine, la Turchia vende droni a tanti Paesi, anche europei, come a quelli del Golfo e mediorientali.
Se il Paese aderisse ai BRICS dovrebbe rivedere le alleanze? O questa iniziativa è solo un tassello di una politica improntata alla multilateralità?
Credo che ci siano dei vincoli, la Turchia si può spingere fino a un certo punto per non perdere i privilegi che le spettano per essere membro del club occidentale. È all’interno dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, come osservatore, un dato che dice come la proiezione globale del Paese lo porti a entrare su certe piattaforme. Allo stesso tempo se dovessi guardare al futuro vedrei una Turchia ancorata al sistema occidentale, al di là delle critiche per riformarlo, visto che non è più rappresentativo. Quella dei BRICS, insomma, è una manovra cosmetica: “Siamo consapevoli dei nostri asset ma abbiamo alternative. L’Europa non ci rappresenta come meritiamo e allora noi guardiamo altrove”. Tutto questo anche se non c’è ancora un piano preciso. Hakan Fidan in Cina ha detto solo: “Potremmo considerare l’ipotesi”.
(Paolo Rossetti)
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