Quello che appare più evidente in questo momento è la grande incertezza che coinvolge, o sconvolge, la politica italiana, di fronte a un clima di sfiducia generale che continua a crescere tra i cittadini. È abbastanza impressionante la ricerca di Alessandra Ghisleri che è uscita su La Stampa mercoledì scorso.
Tutte le istituzioni e gli stessi protagonisti della vita politica italiana segnano perdite di consenso consistenti: è in calo quello del governo, quello del presidente del Consiglio, quello dei partiti della maggioranza. Persino la Chiesa è meno credibile rispetto a un recente passato e crolla addirittura, di ben 12 punti, toccando quota 24 per cento, la fiducia verso la magistratura.
Ma in un gioco di specchi incredibile e inquietante, se la maggioranza parlamentare convince sempre di meno, l’opposizione viene giudicata inadatta, non in grado di risolvere i problemi del Paese, con una quota di condanna a grande maggioranza: ben il 62 per cento.
Probabilmente lo choc della pandemia, che si è assommata a una situazione economica che non convinceva nemmeno quando ancora non si conosceva il Covid–19, conferma la sfiducia che la Ghisleri aveva già rilevato più di un mese fa, quando parlava di solo un italiano su cinque disposto a dare credito alla politica.
Siamo nel campo dei sondaggi, dei numeri, delle tendenze che ormai, con la scomparsa delle ideologie e dei partiti, cambiano a ogni stagione. Eppure bisogna tenerne conto, perché altri analisti, di natura diversa, fotografano aspetti simili. Il professor Fulvio Coltorti, l’ex capo Ufficio studi di Mediobanca, un grande economista, teorico del cosiddetto “quarto capitalismo” basato in Italia sulla media azienda internazionalizzata, quando guarda ai piani per uscire da questa crisi devastante dice sconsolato: “Abbiamo una maggioranza improbabile e un’opposizione ancora più improbabile”. In sostanza, visto da posizioni di studiosi e specialisti di diversa estrazione, sembra che il Paese stia diventando una sorta di regno della sfiducia e della confusione.
Di fronte a tutto questo, il peggio sarebbe quello di rassegnarci. A questo punto, con molto realismo, bisogna misurare bene i passi che si fanno.
Possono essere utili diverse idee, può essere d’aiuto il piano Colao, la convocazione dei cosiddetti “stati generali” dell’economia. Ma appare anche evidente a tutti che in un clima di fibrillazione, di scontri politici incrociati, anche all’interno della stesa maggioranza, si cerchi soprattutto di prendere tempo, di guadagnare i giorni necessari per avere maggiore sicurezza sull’ingente necessità degli aiuti europei.
Un piano di rilancio del Paese non si costruisce sulla carta e solo in parte su confronti e contrapposizioni costruttive. Oggi serve un’unità di fondo, uno slancio di collaborazione, anche nella diversità, e la necessità di contenere con tutti i mezzi possibili la carenza di liquidità e la caduta rovinosa della domanda.
E vista la cadenza continua e sempre più ampia delle proteste sociali spontanee, si capisce che il tempo, l’urgenza dell’intervento, diventa un fatto determinante. Occorre almeno una data abbastanza precisa sull’intervento. Sarebbe questo almeno un fattore decisivo sia per ricercare tutti i mezzi possibili per affrontare il momento attuale, sia per offrire una prospettiva credibile rispondendo a un’ansia sociale che sconfina spesso in rabbia e profondo rancore.
Non possono esserci solo promesse e aspirazioni. Certamente il fatto che l’opposizione non si presenti agli “stati generali” è una sorta di ipoteca per una battaglia politica elettorale. Però c’è anche il protagonismo di Giuseppe Conte, quello che un osservatore attento come Sabino Cassese definisce “leaderismo senza leader”. Infine c’è l’incognita che, dopo alcune precisazioni critiche dello stesso Partito democratico verso l’iniziativa del premier, ci sia una sorta di scadenza obbligata per l’intero governo e che lo stesso Conte senta l’esigenza di rilanciare la sua immagine di mediatore, e quindi l’esecutivo che presiede, di fronte a critiche che arrivano un po’ da tutte le parti. Questo spiegherebbe anche le perplessità che ha avanzato il Pd quando il premier ha lanciato l’idea degli “stati generali”.
La sostanza è che alla fine si stia assistendo a un’ultima parentesi prima di alcune scadenze decisive. Se ne possono citare alcune come la prossima riunione della Commissione europea e lo stesso piano complessivo che si attende per un nuovo assetto sanitario, una razionalizzazione dell’amministrazione pubblica che elimini gli aspetti più fastidiosamente burocratici.
Ma non va neppure dimenticata la questione della giustizia. Sarebbe grave, in un momento di ripensamento del Paese, se venisse tralasciata un problema che potrebbe anche riservare sorprese: stamane i pubblici ministeri di Bergamo interrogheranno il premier, il ministro dell’Interno e quello della Salute sulla questione delle “zone rosse” del Bergamasco.
Sarebbe una beffa finale se, o stesso destino del governo finisse ancora una volta in tribunale, dopo l’intervento della magistratura.