Propaganda e verità. Sotto il tappeto delle fake news, della dezinformatsiya, della maskirovka, vi è la realtà dei fatti. Una realtà difficile da decifrare, perché le guerre di logoramento non presentano risultati eclatanti, come il raggiungimento di un punto di rottura nella volontà dei combattenti, al fronte, nella popolazione o nella saldezza delle istituzioni.



E siccome nessuno può dire cosa accadrà, ecco che la paura di una crisi improvvisa che aprirebbe scenari apocalittici da evitare ad ogni costo – uso delle armi nucleari oppure disfacimento della Russia – diventa dato reale, fatto al pari delle dichiarazioni roboanti dell’una e dell’altra parte. “Guerra fino alla vittoria. Fino alla liberazione dell’intera Ucraina” oppure “Guerra fino alla denazificazione completa dell’Ucraina” .



Ma se quegli obiettivi sono slogan, la domanda a cui dobbiamo rispondere è: che cosa vogliono veramente non l’Ucraina e la Russia, ma gli Stati Uniti e Putin? E l’altro convitato di pietra, la Cina, alleato ingombrante della Russia, che non può permettersi di rompere con i mercati occidentali, a che cosa aspira? Solo rispondendo a questi interrogativi possiamo poi arrivare a chiederci quali siano le condizioni affinché per lo meno i combattimenti cessino.

I tifosi anti-americani sottolineano i mancati successi della controffensiva estiva dell’esercito di Kiev, la resistenza economica di Mosca, la tenuta del regime di Putin, il non isolamento di Mosca da parte della comunità internazionale, e il suo rafforzamento tra i Paesi dell’ex terzo mondo. La parte avversa, l’incredibile resistenza delle forze armate ucraine, l’unità del fronte occidentale, e poi l’innegabile vittoria politica dell’allargamento della Nato.



Ma non si può credere che gli Stati Uniti non conoscano la reale consistenza delle forze ucraine. Senza aviazione, con riserve limitate, addestramento troppo veloce, incapaci di condurre manovre sofisticate.

Andiamo con ordine. Nessun contendente può perdere la faccia. Il prestigio per una superpotenza è componente essenziale del potere, Tucidide docet. Putin, dopo aver perso un numero impressionante di uomini per una guerra moderna – si parla di 50mila soldati in un anno contro i quasi 60mila americani ma in quindici anni –, dopo essersi impelagato in una “operazione speciale” che doveva durare pochi mesi e culminare con il rovesciamento degli odiati filonazisti eredi di Bandera, dopo aver perso il Mar Baltico, visto Svezia e Finlandia entrare nella Nato, persa la relazione speciale con la Germania, deve tornare a casa con un risultato strategico forte, la Crimea, l’accesso al Mar Nero, il Mar di Azov, e delle regioni filorusse come il Dombass.

Gli Stati Uniti hanno ottenuto l’allargamento e il rafforzamento dell’Alleanza atlantica, la frattura economica tra Russia e Europa, una relazione speciale con i Paesi ex sovietici, in primis la Polonia, il logoramento della Russia. Ma dopo essersi impegnati in modo incredibile con l’alleato ucraino, non possono però in nessun modo permettersi una sua disfatta militare, pena una totale perdita di credibilità come Paese leader.

E infatti la diplomazia internazionale per fortuna si muove. Ecco l’attenzione di Putin al piano di pace proposto dai Paesi africani, la diplomazia vaticana che fa la spola tra le capitali, l’annuncio di iniziative da parte dei Paesi arabi.

Un interesse particolare merita quanto sta accadendo nelle file americane. Assieme agli annunci di nuovi aiuti militari, compaiono articoli di personaggi ben addentro al deep state di Washington, signori che magari non occupano posizioni ufficiali, ma ben introdotti nel mondo politico e che scrivono articoli che parlano se non di pace, per lo meno di modalità di un’eventuale tregua. Ad aprile l’articolo di due prestigiosi esperti di politica internazionale quali Richard Haass e Charles Kupchan su Foreign Affairs, rivista semi-ufficiale di tendenze democratiche, dal titolo eloquente The West Needs a New Strategy in Ukraine. A Plan for Getting From the Battlefield to the Negotiating Table.

Adesso, su National Interest, rivista di politica internazionale conservatrice realista, l’importante articolo di Paul Pillar, ex funzionario per ventotto anni dei servizi segreti, nonché autore di importanti libri, che scrive sulle possibili modalità della fine del conflitto in corso. La sua conclusione è semplice, ben suffragata da un potente apparato analitico. Se una pace duratura ha bisogno di un accordo totale e chiaro su tutti i punti in questione, armistizi e cessazione degli scontri si basano su ambiguità, non detti. “In Ucraina, il divario contrattuale che deve essere colmato è tra la riluttanza dell’Ucraina a cedere formalmente parte del suo territorio e la necessità di Putin di mostrare qualche guadagno dalla sua costosa disavventura militare”.

Quello che sembra chiaro all’autore è che non vi può essere nessuna sconfitta definitiva sul campo di nessuno dei contendenti, e che un compromesso è l’unica soluzione possibile.

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