Mai come in questi giorni la guerra pone a tutti noi interrogativi che interpellano la nostra coscienza, sul piano etico, prima ancora che politico. La domanda è: esiste una guerra giusta oppure ogni guerra può e deve essere evitata ricorrendo al piano delle trattative diplomatiche? e se questo non è possibile, come si deve reagire davanti all’aggressore? Per molti politici il dibattito che ne segue non può limitarsi ad una pura discussione sui principi fondamentali, dal momento che alla fine deve concludersi con un giudizio che è al tempo stesso un voto.



Oggi, in Italia, la discussione parlamentare, iniziata con un confronto interno ai partiti per capire cosa fosse più giusto fare, si sta trasformando in un confronto, spesso molto acceso, tra i partiti, per decidere cosa sia più giusto fare. Senza perdere di vista, almeno nella maggioranza, il compito delicatissimo di sostenere l’attuale governo in un momento in cui difficoltà, difficilmente immaginabili fino a poche settimane fa, sembrano complottare per rendere l’equilibrio nazionale e internazionale sempre più fragile. Riflettere sulle diverse posizioni dei partiti è comunque un buon esercizio per capire quanto sia complesso il quadro politico italiano in questo particolare momento storico.



Come sempre in questi casi un buon punto di partenza è l’articolo 11 della Costituzione italiana. Sul suo incipit è possibile essere tutti d’accordo: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali…”.  Una guerra come quella scatenata da Putin è di fatto una offesa molto pesante alla libertà degli ucraini e impone una reazione di difesa adeguata, per esempio, imponendo attraverso le varie sanzioni “…le limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”. Ed è quanto l’Italia sta facendo insieme all’Unione Europea, alla Nato, all’Onu, ecc. coerentemente con il terzo punto dell’articolo 11 della Costituzione: “promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.



In altri termini la guerra di difesa, da parte di un popolo che è stato aggredito, è sempre possibile, a volte è perfino auspicabile e necessaria. Una guerra condotta contro un dittatore che priva della libertà fondamentali buona parte del suo popolo, che massacra i popoli vicini e fa uso della tortura, va necessariamente considerata come una guerra che offende la libertà di quel popolo e impone ai popoli vicini un debito di solidarietà e di collaborazione. Il mancato intervento in aiuto di quel popolo significherebbe di fatto l’assunzione di un comportamento complice con colui o coloro che lo privano con strumenti coercitivi, violenti e talora cruenti delle proprie libertà fondamentali, che la nostra Costituzione esplicitamente dichiara di voler tutelare e promuovere. La teoria guida alla base della guerra giusta è che, sebbene moralmente riprovevole, a volte la guerra è necessaria per risolvere le controversie.

Il problema si pone con tutta la sua crudezza quando ci si chiede nei fatti concreti cosa significhi intervenire a favore del popolo aggredito. Nel caso del conflitto Russia-Ucraina l’Europa, insieme agli Stati Uniti, finora ha preferito sostenere l’Ucraina con aiuti economici, militari e umanitari, senza scendere al suo fianco in una guerra diretta contro la Russia. Europa ed Usa non si sono limitati a stare a guardare; hanno fatto tutto il possibile per offrire all’Ucraina il massimo aiuto possibile in termini di strategie e di intelligence; ricorrendo a sanzioni finanziarie pesantissime, ma evitando di trasformare la guerra tra due Paesi in un conflitto mondiale deflagrante.

Per decidere di entrare in guerra contro un altro Paese bisogna infatti essere convinti che sussistano le condizioni politiche, sociali, economiche e militari che lascino supporre di poterla portare avanti in maniera efficace, riducendo al massimo il danno per tutti. Ma qualora queste condizioni non siano presenti, o quando l’intraprenderla dovesse mettere seriamente in pericolo la sicurezza nazionale, può essere opportuno e legittimo, perfino doveroso, non procedere in tal senso. Il passaggio dalla “legittimità” alla “doverosità” etico-politica di intervenire militarmente dipende dall’esistenza delle condizioni economiche, sociali, politiche e militari, che consentirebbero fondatamente di immaginare una più veloce risoluzione del conflitto, a vantaggio di tutte le popolazioni coinvolte; altrimenti qualsiasi guerra si rivelerebbe non opportuna e “sbagliata” per le sue conseguenze, rispetto alle quali tornerebbero a farsi valere anche ragioni di ordine etico-politico.

Parafrasando un antico detto, “Se vuoi la pace, prepara la pace”. Ed è quanto in questo momento appare urgente e necessario: pensare ad un dopo che, speriamo, sia quanto di più prossimo si possa immaginare. Con fatti concreti e non solo con ipotesi improbabili; per esempio immaginando il ritorno in patria di tanti ucraini coinvolti nella ricostruzione reale del loro Paese e opportunamente sostenuti da una sorta di piano Marshall in cui l’Ue e gli Usa facciano la loro parte di sostegno concreto.

In Italia, intendiamoci, nessuno vuole la guerra: nessun partito, nessun cittadino. Tutti sono solidamente schierati dalla parte della pace. Il punto è come evitare la guerra e restaurare quanto prima la pace, almeno in Europa. Dobbiamo cercare e trovare una nuova strategia globale per la pace. Karol Wojtyła cambiò il panorama geopolitico europeo, perché conosceva bene sia le tattiche del comunismo che del nazismo e decise di confrontarsi sia con i politici sovietici che convocando a Roma il “Sinodo dei vescovi cattolici ucraini”. Apriva così una strada di pacificazione sociale, religiosa, umana.

È di questi giorni la ristampa del libro di Emmanuel Mounier I cristiani e la pace, in cui l’autore, alla vigilia della seconda guerra mondiale, prende le distanze dal bellicismo “dei guerrafondai”, ma invita anche a non rifugiarsi in un pacifismo “degli imbelli”. Per i cristiani la pace deve incarnarsi nelle scelte concrete che la Storia li obbliga ad affrontare. Ed è la posizione che politicamente ritengo più equilibrata e cristianamente fondata. Una posizione di centro, che non si illude che l’uomo, il dittatore in questo caso, sia sempre capace di rinunciare alla violenza della guerra e conosce le intime implicazioni che il gusto della conquista può far scaturire; ma rifiuta anche quella non belligeranza che è frutto dell’inerzia e dell’indifferenza. Sa che costruire la pace è l’impresa più bella a cui si può partecipare, anche se può essere altrettanto faticosa e richiede energie, coraggio e competenze diverse, ma ne vale sempre la pena.

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