Il dibattito che ha accompagnato la risposta dei Paesi occidentali all’invasione russa dell’Ucraina si è caratterizzato per due errori di valutazione. La fiducia nell’efficacia delle sanzioni e nell’incapacità dell’industria russa di sostenere lo sforzo bellico ha fatto maturare nella nostra opinione pubblica la certezza diffusa che fosse possibile mettere in ginocchio la Russia senza un impegno diretto nel teatro ucraino. Durante la prima fase della guerra scrivemmo che le sanzioni avrebbero favorito l’arrocco del regime russo intorno alla figura di Putin e avrebbero spinto la Russia sempre più fra le braccia della Cina. Avevamo intuito che la risposta dei Paesi occidentali era basata su una logica economicista che avrebbe prodotto una distorsione nel modo di comprendere la guerra in corso. In definitiva, i Paesi occidentali si erano illusi che una volta trovate le coperture finanziarie sarebbe bastato rivolgersi all’industria bellica per acquistare le armi con cui difendere la libertà degli ucraini. Purtroppo, però, il riarmo di una nazione impegnata in una guerra di logoramento non è una questione che può essere ridotta alla dinamica della domanda e dell’offerta.
L’industria bellica occidentale aveva bisogno di tempo per riconfigurare tutto il proprio sistema produttivo, tradizionalmente indirizzato alla realizzazione di sistemi d’armi dall’altissimo valore tecnologico e non alla produzione di massa. Era quindi proibitivo armare gli ucraini senza intaccare in modo massivo gli stock strategici e l’apertura in Israele il 7 ottobre 2023 di un altro fronte ha aumentato le difficoltà degli USA di sostenere l’Ucraina. In buona sostanza, una volta venuta meno, con il fallimento degli accordi di Istanbul, la possibilità di una tregua, l’Occidente si è illuso di poter vincere una guerra in modo differito e indiretto. L’effetto devastante delle sanzioni alla Russia sarà evidente fra qualche anno, ma nel frattempo hanno incentivato il processo di de-dollarizzazione delle nazioni che contestano l’egemonia USA e hanno avuto come risposta la totale mobilitazione della società russa, che ha abbracciato in pieno la logica dell’economia di guerra.
Gli economisti che già avevano visto la Russia in bancarotta avevano rimosso le ambigue virtù dell’economia di guerra che ha portato il Pil russo a crescere del 2,7% e il deficit ad attestarsi sotto l’1% del Pil, a dimostrazione delle capacità della Banca centrale russa di arginare l’inflazione attraverso massicci aumenti dei tassi d’interesse. Dati significativi che, se dimostrano la resilienza dell’economia russa, non vanno confusi con l’evidenza di un successo.
La Russia che uscirà dalla guerra sarà ancora più povera e più dipendente dall’alleato cinese, trovandosi alle prese con una dolorosissima riconversione dell’industria bellica e con le riserve valutarie praticamente azzerate. Fortunatamente, come testimoniano le limitate conquiste territoriali, la Russia è ancora lontana dalla vittoria, ma al momento ha accettato in pieno i sacrifici che impongono l’economia di guerra e la mobilitazione totale, cosa che non tutti i Paesi occidentali sembrano intenzionati a fare. L’entusiasmo di chi, dopo pochi mesi di guerra, già intravedeva una cocente umiliazione per Putin ha fatto perdere di vista le mosse della Cina, il vero rivale sistemico degli USA. Pechino in questi anni di guerra ha accresciuto il suo appeal presso quello che viene chiamato il Global South, e benché alle prese con la crisi sistemica della propria economia, sta neutralizzando le armi finanziarie tipiche di una guerra economica e si è incamminata con decisione sulla strada della supremazia tecnologica.
A fronte della colossale topica presa è facile immaginare che gli stessi analisti che hanno scambiato la NATO per una versione bellica di Amazon che consegna in poche ore agli ucraini tutto quello che hanno bisogno saranno i cantori delle virtù dell’economia di guerra e della ineluttabilità di un conflitto aperto con la Russia.
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