La Wagner normalizzata e messa alle dirette dipendenze del Cremlino. Ma soprattutto una controffensiva ucraina che in questo momento sembra funzionare solo per la propaganda: qualche avanzamento, ma niente che possa far pensare al raggiungimento degli obiettivi di riconquista dei territori dichiarati da Kiev. Un contesto in cui, spiega Marco Bertolini, già comandante del Coi e della Brigata Folgore in numerosi teatri operativi tra cui Libano, Somalia, Kosovo e Afghanistan, cominciano a circolare voci su un tentativo tedesco di riallacciare in qualche modo i rapporti con i russi, ma in cui emerge anche la spaccatura dell’Europa: da una parte la Polonia e i Paesi baltici, disposti anche a un intervento diretto nella guerra, dall’altra gli altri Paesi che, in diversi modi, pur sostenendo l’Ucraina, preferirebbero, a questo punto, che fosse considerata anche l’opzione dei negoziati. Intanto Putin ed Erdogan si incontrano oggi per cercare un accordo sulla commercializzazione del grano.
Dopo la morte di Prigozhin il destino della Wagner sembra sia stato affidato al viceministro della Difesa Evkurov, che ha già passato in rassegna le truppe in Siria e Africa. Che ruolo avrà l’ormai ex compagnia militare privata?
La Wagner, che fino ad ora è stata incentrata su un capo carismatico abbastanza improbabile come militare, un self made man forte ma imprevedibile, ora passa da una dimensione artigianale a una professionale. Come strumento strategico e politico viene ancorata in maniera più diretta al Cremlino senza intermediari.
Pensano di gestirla meglio tenendola alle dirette dipendenze del potere politico?
Il potere politico vuole uno strumento che si adegui alle direttive senza troppi colpi di testa. Anche nel suo ultimo giro in Africa Prigozhin ci aveva messo molto del suo, lasciando sconcertato Putin stesso. Certe aperture fin troppo palesi ai golpisti in Niger erano in controtendenza rispetto alla prudenza che Putin vuole almeno dimostrare. C’è poi la parte di Wagner assorbita dall’esercito russo e che opera in Ucraina, che verrà utilizzata in maniera tattica ma alle dipendenze dell’esercito.
Guardando il campo di battaglia ora gli americani sostengono che gli ucraini stanno ottenendo risultati. È la solita propaganda o qualcosa si sta muovendo?
Gli ucraini stanno esercitando il loro sforzo principale nell’area di Rabotino in direzione di Tokmok, per arrivare a Melitopol e al Mare d’Azov. È vero che sono andati avanti, ma stiamo parlando di qualche chilometro, non di vere penetrazioni nel settore avversario.
Questa controffensiva ce la raccontano più grande di quella che è?
Sì, soprattutto per un motivo. Per lo sforzo che stanno facendo, oltre ad avere delle grandi perdite, sono state impiegate quelle unità che avrebbero dovuto utilizzare una volta rotte le linee difensive russe. Si percepisce che questo è lo sforzo principale. Si è creato un saliente ma si tratta di un’area abbastanza limitata. Si combatte in un’area delicata: se riuscissero a tagliare il ponte terrestre che collega il Donbass con la Crimea sarebbe un colpo importante per l’Ucraina.
Sul piano diplomatico i rumors parlano di un tentativo da parte tedesca di contattare i russi per valutare a quali condizioni potrebbe partire una trattativa. Una strada percorribile o continueranno a parlare solo le armi?
Il fatto che ci siano queste mosse è la conferma che anche le cancellerie europee meno critiche nei confronti del supporto all’Ucraina cominciano a porsi in modo diverso il problema della guerra.
L’Ungheria chiede conto di come sono stati spesi i soldi europei dati all’Ucraina, i tedeschi sembra si stiano muovendo sottotraccia. Ma poi ci sono Polonia e Paesi Baltici che sostengono l’Ucraina a spada tratta. L’Europa è spaccata?
Certo, anche l’Austria ha continuato a rifornirsi di gas russo. Ci sono delle posizioni diverse. La divisione più importante è quella tra polacchi e baltici da una parte e il resto dell’Europa dall’altra. Nel continente ci sono Paesi più o meno contenti di andare avanti. Anche il ministro Crosetto auspica un negoziato. Invece la Polonia ha un suo interesse nazionale che si potrebbe concretizzare nella realizzazione di un’area di influenza diretta nell’Ucraina occidentale, quella che è stata polacca. I contatti Duda-Zelensky di questi mesi vanno in questo senso: un do ut des che all’aiuto da parte polacca agli ucraini fa corrispondere la possibile influenza di Varsavia su quell’area.
La Ue, insomma, non riesce a prendere una posizione unitaria perché al suo interno ci sono posizioni troppo diverse?
Sì. Siamo trainati dai Paesi baltici che sono i più schierati a favore della guerra: anche nell’attacco all’aeroporto di Pskov c’è il sospetto che i droni utilizzati, anziché arrivare dall’Ucraina, venissero dai confini proprio con i Paesi baltici. Sarebbe molto grave, perché fanno parte della Nato. Speriamo non sia così. Il Mar Baltico d’altra parte è un’area importante, lì c’è una delle flotte navali russe.
Intanto oggi a Sochi, in Russia, dovrebbero incontrarsi Erdogan e Putin per cercare di sbloccare l’accordo sulla commercializzazione del grano. Il presidente turco torna a tenere il piede in due scarpe?
Sembra che Erdogan stia cercando di tornare a fare quello che faceva prima. Putin ribadirà quali sono le sue condizioni per arrivare a un accordo: un allentamento delle sanzioni per permettere di operare ad alcune banche russe interessate all’accordo sul grano, riattivare il gasdotto che porta ammoniaca a Odessa, sabotato dall’inizio della guerra da parte ucraina. Non credo che verranno accettate tutte e può darsi che non ne venga accettata neanche una. Vedremo se riusciranno a trovare un accordo.
Erdogan vuole ancora fare da mediatore tra russi e occidentali?
Credo di sì. La Turchia comunque non opera per buoni sentimenti, per i princìpi, ma per il suo interesse nazionale. Per avere un’apertura dell’Ue Erdogan ha dato il suo assenso all’arrivo della Svezia nella Nato. Se farà il mediatore lo farà solo per i suoi interessi. Ma io ritengo che se i Paesi facessero solo i loro interessi le possibilità di riuscita delle mediazioni sarebbero sicuramente maggiori. Quando si parla di princìpi non ci si arriva, perché i principi sono o bianchi o neri. Parlare di interessi significa essere pragmatici. E mediare.
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