In un precedente articolo, con riferimento alla vicenda ucraina, avevo indicato come il raggiungimento della pace sia un procedimento più profondo e completo che non il solo evitare una guerra o por fine ad essa. Altrimenti occorrerebbe dar ragione alla celebre frase di von Clausewitz: “La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi”. Frase del tutto corretta, quando l’obiettivo della politica è l’affermazione, anche con la forza, di una parte su un’altra, sia che si tratti di partiti che di nazioni. Frase del tutto sbagliata, anzi condannabile, se la politica persegue la costruzione di una pace duratura, all’interno del suo popolo e con gli altri popoli, nel rispetto reciproco e con l’obiettivo di trovare soluzioni condivise agli innumerevoli problemi che la coesistenza comporta.
Non è questione di pacifismo teorico o idealista, è questione di non considerare la guerra come “uno strumento della politica”, ma come un danno esecrabile da evitare. La Chiesa cattolica non esclude la tragica necessità di una guerra, ma pone limiti molto stretti, concreti e ragionevoli, per una guerra “giusta”. Dice il Catechismo: “Occorre contemporaneamente: che il danno causato dall’aggressore alla nazione o alla comunità delle nazioni sia durevole, grave e certo; che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci; che ci siano fondate condizioni di successo; che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare”. E aggiunge che la valutazione di queste condizioni spetta al giudizio “prudente” di coloro che hanno la responsabilità del bene comune, tenendo in gran conto la potenza dei moderni mezzi di distruzione.
L’invasione russa dell’Ucraina non rispetta nessuno di questi criteri ed è quindi del tutto condannabile, ma ciò non libera le controparti dalle loro responsabilità, come già cercato di delineare nel precedente articolo. Non solo a Mosca, ma anche nelle altre capitali coinvolte, a partire da Washington, sul Catechismo sembra avere prevalso Clausewitz, purtroppo anche per una parte della Chiesa ortodossa. Ora c’è solo da sperare che la politica rinunci a questo disastroso strumento per gestire le proprie responsabilità.
Per il momento l’obiettivo più immediato è raggiungere un cessate il fuoco che ponga fine a questa avventura, disastrosa per l’Ucraina e dannosa per la Russia, popoli e Stati. La strada per costruire una reale pace duratura si presenterà comunque in aspra salita. È quasi scontato che l’Ucraina debba rinunciare alla Crimea, d’altra parte attribuitale da una decisione arbitraria sovietica, ma storicamente fuori dal suo territorio. La decisione altrettanto arbitraria di Putin di far approvare dalla Duma l’annessione delle aree occupate del Donbass rende peraltro difficile una soluzione ragionevole per la regione, come una sua possibile “neutralizzazione”.
Con questa dissennata decisione di Putin, la questione del Donbass può essere risolta solo con la vittoria di una delle due parti, cosa molto difficile e pericolosa anche per la Russia. Né potrebbe essere una soluzione la caduta di Putin o un’implosione della Federazione Russa, le cui conseguenze coinvolgerebbero l’intera scena mondiale.
A questo punto, l’ipotesi più probabile sembrerebbe quella, già temuta da diversi commentatori, di una lunga guerra di posizione, perpetuando la guerra che dal 2014 ha sconvolto il Donbass. Con, questa volta, il coinvolgimento diretto di Mosca, che con l’annessione ha trasformato la cosiddetta “operazione speciale” in una vera e propria guerra tra Russia e Ucraina. La tragica impressione è che il tentativo di indebolire la Russia senza arrivare a una vera e propria resa dei conti sia fallito e ora i conti siano invece presentati, e pesanti.
Uno degli argomenti usati contro la Russia è che quello di Putin sia un regime quantomeno autocratico, se non dittatoriale. Stalin era decisamente un dittatore, ma ciò non ha impedito a Stati Uniti e Regno Unito di allearsi all’Unione Sovietica per combattere i nazisti. E proprio in Crimea, a Yalta, si tenne una conferenza in cui vennero decisi i destini europei, lasciando sotto il tallone sovietico una parte dell’Europa.
È forse giunto il momento di una nuova Yalta in cui ancora una volta americani, inglesi e russi, e magari Unione Europea, ma non è detto, si incontrino per giungere a una ipotesi di convivenza se non pacifica almeno non ostile. Se non altro perché vi sono avversari comuni da affrontare, ad esempio Cina o terrorismo islamico, e perché una tale convivenza sarebbe utile per tutti sotto il profilo dello sviluppo economico.
L’Ucraina non dovrebbe ovviamente essere l’unica a pagare il costo di questa nuova Yalta, ma non ci si può nascondere che l’attuale guerra non può essere risolta né sul campo di battaglia, né con temporanei armistizi. Ognuno dei contendenti dovrà cedere qualcosa, ma una collaborazione futura è nell’interesse di tutti. All’Occidente toccherà il compito non solo di “tutore” degli accordi, sperando in un impegno più sincero rispetto a quello riservato a Minsk, ma di collaborare alla ricostruzione dell’Ucraina. Un compito con costi notevoli, soprattutto con la crisi economica in atto.
Una ipotesi astratta quella descritta, una sorta di pio desiderio? È purtroppo probabile, ma quale altra via d’uscita se non un disastro peggiore?
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