Le forze russe avanzano in Donbass stringendo a tenaglia il grosso dell’esercito professionale ucraino; lo dicono gli stessi media occidentali. Le sanzioni si stanno rivelando un fallimento e le entrate valutarie ed energetiche della Russia sono abbondanti. Che sta succedendo?

I 37 leader occidentali “amici dell’Ucraina” si erano vantati pubblicamente che il sequestro delle riserve estere offshore della Russia, le espulsioni bancarie russe da Swift, la sanzione della banca centrale russa, e l’ampio fronte delle sanzioni, di per sé, avrebbero trasformato il rublo in macerie causando una corsa al sistema bancario interno, facendo crollare l’economia russa, e perciò avrebbero provocato una crisi politica a cui Putin non sarebbe sopravvissuto. Dopo otto anni di ingenti finanziamenti, forniture e formazione della Nato per la costruzione di un esercito addestrato (le forze armate ucraine), dopo l’umiliante fuga americana e della Nato dall’Afganistan, c’è il rischio concreto che anche l’eroica resistenza ucraina – per la pace, la libertà e la società aperta – si trasformi in polvere.



Iniziamo dalle parole non casuali pronunciate dal ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, braccio destro del presidente ucraino, che a Davos ha accusato la Nato di “non fare assolutamente nulla” contro l’invasione russa. Parole pesanti, poco diplomatiche, e con una dose di verità. Il sentimento ucraino lo riassume ancor meglio l’ambasciatore ucraino in Germania, Andrij Melnyk, che in un tweet scrive: “Ecco le armi tedesche in arrivo”. Nella foto si vede una lumaca che trasporta un proiettile. Anche Zelensky ha lanciato messaggi alla grande: “Vogliamo più sanzioni e più armi”; “Tutti gli scambi con l’aggressore dovrebbero essere fermati”; “Tutte le imprese straniere dovrebbero lasciare la Russia in modo che i vostri marchi non siano associati a crimini di guerra”, ha detto. Le sanzioni devono essere onnicomprensive; i valori devono essere importanti.



Nello stesso tempio del globalismo economico, Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, riconosce che la “guerra di Putin è un attacco all’ordine internazionale” e per questa ragione per la prima volta l’Unione Europea fornisce assistenza militare e finanziaria all’Ucraina aggredita. È in quest’ottica che ha dichiarato: “l’Ucraina deve vincere”! Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato, sempre a Davos ha dichiarato che “la libertà è più importante del libero commercio” e che “la sicurezza europea non sarà dettata da atti di violenza e intimidazione”. Obiettivi opachi e indefiniti i cui dettagli si affidano solo all’emozione del momento.



Un imbarazzo europeo e della Nato malcelato nelle parole pronunciate. Come ha scritto Federico Fubini, “la guerra ha smascherato la perdita di soft power perché il conflitto ha indebolito la credibilità politica di Berlino e di Bruxelles” e le sanzioni alla Russia senza l’adozione di quelle secondarie sono inutili, inefficaci e addirittura autolesioniste. Le annunciate “imminenti” sanzioni europee sul gas e il petrolio russo non ci saranno a breve.

Sempre a Davos ha parlato anche Henry Kissinger, che ha avvertito l’Occidente di smettere di cercare di infliggere una sconfitta schiacciante alle forze russe in Ucraina, dicendo che ciò avrebbe conseguenze disastrose per la stabilità a lungo termine dell’Europa. Ha detto che sarebbe fatale per l’Occidente farsi trascinare nell’umore del momento e dimenticare il giusto posto della Russia nell’equilibrio di potere europeo. Kissinger ha detto che la guerra non deve essere lasciata trascinarsi e si è avvicinato a chiedere all’Occidente di istruire l’Ucraina ad accettare termini che sono molto al di sotto dei suoi attuali obiettivi di guerra: “I negoziati devono iniziare nei prossimi due mesi, prima che crei sconvolgimenti e tensioni che non saranno facilmente superati”.

Questo stato di cose lo aveva capito per tempo il premier britannico, Boris Johnson, assente a Davos, che dalla sua visita a Kiev (9 aprile) ha intessuto un progetto alternativo a quello dell’Unione Europea e della Nato: un Commonwealth europeo che avrebbe il Regno Unito come leader e includerebbe, oltre all’Ucraina, la Polonia, l’Estonia, la Lettonia e la Lituania, potenzialmente anche la Turchia. Si tratterebbe di un’alleanza di Stati gelosi della propria sovranità nazionale, liberisti in economia e decisi alla massima intransigenza contro la minaccia militare di Mosca. Una chiara sfida post-Brexit a Bruxelles, ma anche a quella Nato “cerimoniale” che si riunisce in Europa, mentre il Regno Unito – anche per assenza di alternative sostenibili – cerca di “fondersi” con gli Stati Uniti in Europa e nell’Indo-Pacifico. Le forze armate britanniche e quelle americane avevano già firmato un accordo per la “fusione” operativa nel 2021; nell’Indo-Pacifico, pochi giorni fa, è significativa l’esercitazione Coccodrillo che vede i marines “fondersi” con le forze armate australiane (e indonesiane). Quella di Johnson è una prospettiva che fa aumentare il “rischio Europa” molto di più delle operazioni militari russe. Un rischio di marginalizzazione strategica e di implosione delle già visibili faglie del fronte anti-russo in Europa (sanzioni e obiettivi della missione).

Su questo l’Ue e la Nato tacciono. Per ora tace anche l’Ucraina, che aspetta il Consiglio europeo del 23 giugno per decidere se abbandonare ogni speranza su Unione Europea e Nato, e quindi unirsi a Regno Unito e Stati Uniti. Sarà difficile che il Consiglio riesca ad approvare ulteriori sanzioni alla Russia, ma anche l’apertura dei negoziati di accesso dell’Ucraina, nonché ulteriori sostegni finanziari e militari per l’Ucraina. Secondo alcuni negoziatori, c’è un’altra ipotesi: i leader dei 27 possono limitarsi a dichiarare vagamente che Kiev ha una “prospettiva europea” (la cosiddetta “formula di Salonicco”).

Quindi Zelensky prenderebbe più sul serio l’offerta alternativa di Boris Johnson che, però, da solo non ha né la capacità dell’Unione Europea di fornire aiuti finanziari all’Ucraina, né di convincere la Polonia o i Paesi baltici a prendere alcuna iniziativa che possa mettere a repentaglio le relazioni con Bruxelles. Sebbene da Washington non ci siano dichiarazioni, non possiamo dimenticare che più che su quelle Nato gli Stati Uniti contano maggiormente sulle proprie basi e installazioni presenti in Europa, particolarmente in Polonia, Romania e Lituania. Quindi, non è impossibile che il rafforzamento della presenza militare statunitense nell’Europa orientale diventi probabile se il controllo nel cuore dell’Occidente, che si è spostato verso Est, lo richiederà. Per il momento, Johnson cerca di sconvolgere l’equilibrio nel continente puntando certamente a un dividendo politico per avere una carta aggiuntiva nell’accordo con Bruxelles, che lui stesso vorrebbe riaprire sulla Brexit.

All’inizio, abbiamo richiamato le parole non casuali del ministro degli Esteri ucraino. Infatti, si basano sui dati elaborati da Arianna Antezza del Kiel Institute for the World Economy che in uno studio del maggio 2022 ha monitorato il sostegno all’Ucraina di 37 governi, compresi tutti i paesi membri del G7 e dell’Unione Europea, oltre al sostegno delle istituzioni dell’Ue (includendo quindi 38 donatori). Emergono differenze significative nella scala del sostegno tra i Paesi, sia in termini assoluti che in percentuale del Pil dei Paesi donatori. In miliardi di euro, di gran lunga il più grande sostenitore bilaterale dell’Ucraina sono gli Stati Uniti, seguiti da Polonia, Regno Unito e istituzioni dell’Ue. In percentuale del Pil dei donatori, i paesi dell’Europa orientale si distinguono come particolarmente generosi, e questo è ancora più vero una volta che teniamo conto dei costi dei rifugiati. Il Regno Unito da solo ha dato a Kiev più aiuti economici e militari durante la guerra rispetto all’intera Unione Europea, e la Polonia ne ha dati da sola più di Germania, Francia e Italia.

Per questo, vanno ben ascoltate anche le parole di preoccupata emergenza di Kissinger che teme, oltre ad una nuova débâcle occidentale, le crepe politiche in Europa che la “guerra” contro la Russia può trasformare in un collasso economico in Europa. Ciò mette l’accento anche sull’adeguatezza dell’attuale leadership dell’Unione Europea, sia nel Consiglio sia nella Commissione.

I governi europei non devono perdere l’occasione del Consiglio di giugno per trarre le necessarie conclusioni e decidere, possibilmente, a favore di sé stessi e delle popolazioni europee.

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