Nel giorno in cui in modo dimesso si celebrava l’indipendenza dell’Ucraina dall’Unione Sovietica, missili russi hanno colpito la stazione ferroviaria della città di Chaplyne, lontana dai luoghi di scontro, causando la morte di 25 persone tra cui un bambino di 11 anni, secondo Kiev; per le fonti russe sono morti almeno 200 militari ucraini che si trovavano su un treno. Dal punto di vista politico, invece, si registrano una serie di dichiarazioni che fanno pensare come ogni tentativo di dialogo sia sempre più lontano.
Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha definito “legittima la resistenza ucraina alla brutale aggressione russa” mentre ieri il ministro degli Esteri Luigi Di Maio si è recato a Kiev per incontrare Zelensky e la leadership del Paese. Come ci ha detto in questa intervista Mauro Indelicato, giornalista di InsideOver esperto di geopolitica, “siamo in piena campagna elettorale e il governo uscente vuol far sapere agli italiani che, qualunque sarà il prossimo esecutivo, la linea italiana nei confronti della guerra in atto non cambierà”.
Si registrano prese di posizione forti da parte del nostro Paese sulla guerra in Ucraina. Come vanno valutate?
Bisogna tener conto che le dichiarazioni di Mattarella e la visita di Di Maio a Kiev si tengono in piena campagna elettorale. Il governo uscente vuole tranquillizzare gli italiani sulla posizione nei confronti dell’Ucraina a prescindere dal colore del nuovo esecutivo che verrà eletto. Mattarella con le sue parole rimarca la legittimità della resistenza, una frase molto forte, che vuole sottolineare ancora di più il ruolo dell’Italia e il fatto che il nostro Paese non abdicherà alla posizione assunta fin dal primo giorno di guerra.
La visita di Di Maio invece? Anche questa è una sorta di assicurazione sui nostri intenti?
Sì, è un segnale politico molto forte inviare un ministro degli Esteri il giorno dopo la festa dell’indipendenza ucraina. Significa ribadire la posizione italiana.
Zelensky invece ha detto che l’Ucraina si batterà fino alla fine senza nessun compromesso su Crimea e Donbass. Parole che allontano ogni possibilità di dialogo?
Sono dichiarazioni che, se non possono essere definite di rito, sono comunque per così dire obbligate. In una fase come questa, che si può definire di stallo nel conflitto sul terreno, ovviamente nessun politico ucraino andrà ad aprire una trattativa in cui cedere la Crimea o parte del Donbass. Ancor di più Zelensky e la sua leadership sono orientati a rimarcare i propri obiettivi.
Anche Erdogan si è dichiarato a favore del ritorno della Crimea all’Ucraina. Sommando tutte queste dichiarazioni ostili alla Russia, che cosa se ne può ricavare?
Sono dichiarazioni che delineano uno scenario internazionale dove la linea del dialogo sulle questioni fondamentali è ancora lontana, mentre in primo piano continuano a stagliarsi i princìpi di ognuna delle due parti, princìpi non negoziabili al momento.
Mosca è sempre più isolata o non se ne cura?
In sei mesi di guerra non c’è mai stato un giorno in cui Mosca sia sembrata sensibile alle dichiarazioni internazionali. La Crimea per Putin rappresenta una sorta di linea rossa che non può essere messa in discussione. Nello specifico, Erdogan non è nuovo a questo tipo di dichiarazioni, perché in Crimea vive una minoranza islamica e lui ha sempre voluto apparire come il difensore dell’islam. Pertanto la dichiarazione sulla Crimea è in linea con la sua politica di sempre. Per Mosca altro non è che la conferma della sua posizione, non credo si sentiranno infastiditi.
Il portavoce del Consiglio di sicurezza della Casa Bianca, John Kirby, ha lanciato l’allarme per una serie di referendum che i russi hanno intenzione di tenere non solo nel Donetsk e nel Luhansk, ma anche a Kherson, Zaporizhzhia e Kharkiv.
Si parla di referendum già da marzo, quando i russi sono entrati a Kherson, e si parlava di votare l’11 settembre, cosa che adesso è stata rimandata. Le dichiarazioni di Kirby non sono nuove. Soprattutto l’intelligence britannica, ma anche quella ucraina, sostengono come l’intento di Mosca sia una annessione de facto dei territori occupati tramite un plebiscito. Non sarebbe una strategia nuova, perché la stessa Crimea nel 2014 è stata annessa in questo modo. È chiaro che il referendum, già dall’epoca di Napoleone, è sempre servito per rendere ufficiale quello che è ufficioso.
Referendum farsa, dunque?
Sull’organizzazione dei referendum in realtà il Cremlino sta un po’ frenando, perché farli entro settembre significherebbe mettere molta carne al fuoco in un contesto già molto teso. Nel lungo termine è la scelta obbligata, se vogliono dare un minimo di legalità a tutta l’operazione.
(Paolo Vites)
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