All’inizio degli anni Settanta del Novecento quello ch’era allora il sottosegretario alla Difesa Usa, Fred Iklé, pubblicò un libro importante: Every War Must End (la prima edizione è del 1975 e una nuova versione molto importante è del 2005, sempre per Columbia University Press). Un libro che bene rappresentava e rappresenta l’apogeo del pensiero kissingeriano, realista e concretamente operante per la realizzazione di una sorta di riedizione su scala mondiale dell’equilibrio di partenza europeo sei-settecentesco che condusse poi alla ricomposizione meravigliosa dell’ordine con il Congresso di Vienna del 1815 e che ancora oggi è una pagina di inaudita speranza. Lo è perché ci insegna che ogni guerra può terminare, solo che si seguano e si rinnovino gli insegnamenti di un filone di pensiero che da Botero e Machiavelli giunge sino a Morgenthau e, appunto, a Kissinger.



Ma è proprio questo che oggi pervicacemente non si persegue. Su questo crollo del pensiero e dell’azione diplomatica occorrerà riflettere con profondità, partendo dalle storie degli Stati nazionali piuttosto che dalle illusioni multipolariste della retorica internazionalistica “umanitaria” delle schools of law di Harvard e di Yale.



Iklé dimostrava che la Guerra di Corea, che pareva interminabile, terminò per due motivi: il primo fu la morte di Stalin nel 1953, che indusse la Cina a non perseguire nella guerra che aveva voluto per impossessarsi di tutta la penisola indocinese, contro la volontà non solo del PCUS, ma del Vietnam e di tutti gli altri Stati dell’area; il secondo fu l’avvento negli USA di un presidente che era sì un generale (Eisenhower), ma convinto che ricercare la pace era necessario, alzando la bandiera bianca della trattativa e della rinuncia a raggiungere tutti gli obiettivi e i propositi territoriali che s’erano perseguiti da entrambe le parti, così scatenando e continuando la guerra. La Guerra di Corea non a caso finì là dove iniziò, ossia sul 38° parallelo, dove i due Stati sono ancora oggi. Si firmò l’armistizio di Panmunjeom e la situazione è ancora ferma a quella decisione strategica comune che ci preservò da una guerra che si apprestava a diventare nucleare.



Bastava del resto ricordare che cosa successe pochi anni prima, con la guerra di aggressione russa alla Finlandia dell’agosto del 1944. Ma Stalin aveva vinto la guerra in quell’Europa che si apprestava da allora a dominare d’accordo con gli USA, così impedendo alla stessa di salire in potenza… com’è stato sino al crollo dell’URSS. Oggi il problema si ripropone in tutt’altre forme, ma pur tuttavia riappare, senza che nessuno rifletta sul problema teorico che così solleva la rinascita dell’imperialismo russo dinanzi a ciò che avverte come minacce esistenziali da combattere solo con la guerra. Con esiti tremendi.

Ma torniamo alla Finlandia: Stalin la invase e il primo ministro finlandese Mannerheim, pur di ottenere la pace, concesse a Stalin i territori che richiedeva e si risolse a restare neutrale nel corso della guerra. Fu una decisione molto sofferta da Churchill, che aveva con Mannerheim un lungo rapporto di stima e di amicizia. Ma quello che allora a molti parve una decisione assai controversa e rinunciataria si rivelò al finire della guerra – che vide l’URSS vittoriosa – una soluzione decisiva per consentire alla Finlandia non solo di riacquistare i territori della Carelia e di Petsamo, ma di non subire la devastante occupazione staliniana imperialistica delle nazioni baltiche, occupazione che segnò la fine della Seconda guerra mondiale aprendo quelle ferite che oggi – con la nuova aggressione all’Ucraina – si sono riaperte costruendo un nuovo assetto di potenza in Europa e nella stessa NATO, ponendo il fianco Nord al centro dello scontro inter-imperialistico.

Ripensare alla storia aiutati da una buona storiografia aiuta a comprendere come si può superare la situazione odierna della guerra d’attrito, dove nessuno dei due contendenti può vincere, se intende come vittoria l’ottenimento di tutto ciò che vorrebbe avere.

Occorre immaginare, invece, da parte di entrambi i contendenti – o dei blocchi di potenza che si scontrano, sia secondo i canoni classici della guerra, sia con quelli delle guerre per procura – una fine del conflitto che non sia solo quella della completa vittoria (un gioco a somma zero), ma invece quella della possibilità di un negoziato che consenta di evitare il peggio l’indomani.

Il caso finlandese è esemplare a questo proposito. Trattare non implica combattere senza determinazione, ma sempre con l’onore delle armi accompagnato dall’intelligenza strategica di non aggravare non soltanto la situazione dei propri popoli, ma anche quella del mondo intero. Così come oggi si preannuncia, sottovalutando il pericolo della guerra nucleare.

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