L’ultimo Consiglio Ue – connotato da crescenti tensioni, anzitutto fra Francia e Germania e altri Paesi-membri, fra cui l’Italia – ha nei fatti aperto una lunga campagna elettorale verso il rinnovo del Parlamento europeo, nella primavera 2024.
Attorno al contrasto fra il Presidente francese Emmanuel Macron e il premier italiano Giorgia Meloni – molti osservatori (fra cui chi scrive) hanno rilevato mosse rilevanti più su uno scacchiere politico interno all’Ue che sui diversi fronti esterni che vedono impegnata l’Unione nella crisi geopolitica. Se d’altronde l’Occidente sta difendendo la forza della sua civiltà (in Ucraina, a Taiwan, in Africa o in Medio Oriente) tra poco più di un anno l’Europa è chiamata a testimoniare il grado corrente della sua coesione e l’efficacia della sua governance democratica. In concreto: più di 400 milioni di elettori saranno chiamati a designare 705 europarlamentari e subito a valle sarà rinnovata la Commissione esecutiva di Bruxelles.
Secondo le ultime proiezioni (datate 1 febbraio) dell’osservatorio tedesco Der Foederalist al prossimo voto europeo entrambi i partiti-guida (Ppe e S&D) registrerebbero leggeri arretramenti. Secondo il sito ufficiale dell’Europarlamento, la nuova situazione di partenza determinata da Brexit (con il taglio del plenum da 751 a 705 eurodeputati) vedeva i popolari primo partito con 182 seggi (24,3%) e i socialisti secondi con 154 (20,5%). Le “proiezioni dinamiche” di Der Foederalist gliene assegnano oggi rispettivamente 172 e 138 (altri centri – come EuropeElects.eu – stimano perdite più marcate: ad esempio 159 per il Ppe). Anche assumendo le cifre più ottimistiche, verrebbe confermata in via definitiva la fine a Strasburgo della maggioranza assoluta congiunta, storico appannaggio della “grande coalizione” fra le due più tradizionali forze politiche del Vecchio continente. Tutto questo in attesa degli impatti che avranno – da oggi al voto – gli sviluppi del Qatargate: anzitutto su S&D.
Sembrano invece al momento tenere i liberaldemocratici di Renew Europe (a cavallo dei 100 seggi), mentre sarebbe già in visibile declino l’astro dei Verdi, che dall’exploit storico del 2019 (74 seggi pre-Brexit) scenderebbero a 44. In crescita evidente risulterebbero Ecr (da 64 a oltre 80 per la formazione conservatrice presieduta da Meloni e forte di “Libertà e Giustizia”, al Governo in Polonia), ID (cui aderisce la Lega) e la Sinistra radicale. Sono queste le forze che – usualmente – si collocano all’opposizione di una “maggioranza di fatto” che resta imperniata a Strasburgo sui tre grandi partiti cosiddetti “europeisti”. Ma già nel 2019 sono giunti al pettine tutti i nodi politico-istituzionali legati a una governance Ue ancora macchinosa: nella quale la Commissione viene ancora costruita nel Consiglio dei 27 Capi di Stato e di Governo (anche sulla base di riserve per singolo Paese-membro) e solo successivamente sottoposta alla “fiducia” dell’organo legislativo di Strasburgo.
Già quattro anni fa l’Europarlamento – cuore della sovranità democratica dell’Unione – avrebbe dovuto accentuare il suo ruolo. Il Presidente della Commissione avrebbe dovuto essere un cosiddetto spitzenkandidat: uno dei “capolista europei” indicati da ciascun partito al voto. La Commissione avrebbe dovuto rispecchiare in modo più visibile lo stato degli orientamenti politici degli elettori europei. Un “Presidente di commissione eletto” avrebbe nei fatti dovuto avvicinare ulteriormente le dinamiche politico-istituzionali europee a quelle di una democrazia compiuta: dove chi governa ha il sostegno di una specifica maggioranza parlamentare.
Nel 2019 gli spitzenkandidaten erano per la Ppe il tedesco Manfred Weber (esponente della Csu bavarese, allora parte della “grande coalizione” Cdu-Spd a sostegno di Angela Merkel); e per S&D l’olandese Frans Timmermans, già vicepresidente della Commissione Juncker a Bruxelles. I liberali preferirono non indicare nessuno ufficialmente, benché il loro nome fosse quello di Margrethe Verstager, capo uscente dell’Antitrust Ue (danese, quindi fuori dall’eurozona). Al test del voto tutte e tre le formazioni arretrarono e spiccò lo specifico insuccesso dei popolari tedeschi.
Nel consiglio-fiume di inizio luglio 2019, Weber fu tolto dal tavolo e sostituito all’ultimo come Presidente della Commissione da Ursula von der Leyen: tedesca e collega di partito, che però non poté raccogliere neppure il voto della “sua” cancelliera Merkel per la ferma opposizione dei socialdemocratici tedeschi. Timmermans non poté salire alla presidenza (salvando il principio del “presidente eletto”) per via della netta sconfitta dei socialisti. L’olandese fu però designato primo vicepresidente mentre Verstager mantenne la Concorrenza con la promozione a vice di von der Leyen. Christine Lagarde fu spedita al verticeBce dal Presidente francese Emmanuel Macron (Re). Il Premier italiano Giuseppe Conte (M5S, antagonista all’europeismo ortodosso) era già proiettato verso il ribaltone a Roma e lasciò che andassero ai “dem” il commissariato agli Affari economici (a Paolo Gentiloni) e la presidenza dell’Europarlamento (a David Sassoli (poi scomparso).
Il risiko dei veti nazionali e politici fece tuttavia sì che tutta la nuova Commissione riportasse risicati voti di fiducia, a maggioranza assortite e variabili (a von der Leyen furono necessari a Strasburgo perfino i voti dei “cani sciolti” italiani di M5S). Non mancarono clamorose bocciature; come la candidata commissaria francese all’Industria Sylvie Goulard, macroniana di ferro). Dal 2019 a oggi non è mai stato facile rispondere alla domanda: quale maggioranza garantisce la fiducia alla Commissione in carica? E cosa accadrà nel 2024? Quanto l’approccio a una campagna lunga può influenzare l’attualità geopolitica (nell’Ue, nella Nato, nei singoli Stati)?
Weber – rimasto capo del Ppe – è tornato in pista. Non è più ingabbiato nella “coalizione Merkel” e ha anzi mani molto più libere dopo il passaggio di Cdu-Csu all’opposizione al Bundestag. Euro-24 si profila quindi per lui e per i democristiani tedeschi come un trampolino ideale per preparare la riscossa in Germania contro il Cancelliere in carica, il socialdemocratico Olaf Scholz e la sua coalizione con liberali e verdi. Bene: Weber ha preso l’iniziativa aprendo un tavolo con i Conservatori e Riformisti. E come prima mossa ha subito incontrato Meloni a palazzo Chigi. Alcuni media internazionali hanno addirittura ipotizzato un sondaggio sulla Premier italiana come candidata di punta di un “campo largo” del centrodestra europeo. Se il colore rosa sarà quasi un obbligo, Weber punterebbe invece sull’attuale Presidente del parlamento europeo: Roberta Metsola.
La politica maltese – vicepresidente dell’Europarlamento da fine 2020 – è stata promossa alla prima poltrona un anno fa, dopo la scomparsa di Sassoli. A 44 anni non ha mai avuto incarichi di governo nello Stato-isola al centro del Mediterraneo, storica base militare e commerciale del Regno Unito (in cui sembrano prendere forma spinte “Bre-verse”). L’esperienza politica di Metsola si è svolta esclusivamente a Strasburgo, dov’è stata eletta due volte nelle file del Partito nazionalista maltese. Ha avuto 4 figli da un marito finlandese (oggi top manager di un grande gruppo Usa), lui pure candidato senza successo per l’Europarlamento, in una formazione conservatrice. Metsola – cattolica, connazionale del cardinale Mario Grech, attuale segretario del Sinodo dei Vescovi – è nota per la sua posizione anti-abortiste. Come presidente dell’Europarlamento ha gestito la crisi del Qatargate, esplosa lo scorso autunno, che ha condotto fra l’altro alla sospensione della vicepresidente in carica Eva Kaili, socialista greca.
Ai blocchi di partenza il tentativo Metsola leader a Bruxelles – programmaticamente coerente con la logica elettorale degli spitzenkandidaten – conterebbe su non più di 250-260 voti orientativi a Strasburgo: 170-180 circa portati dal Ppe (che in Italia ricomprende Forza Italia) e un’ottantina da Ecr. L’asticella dei 355 voti – decisiva nell’approccio “politique d’abord”” – appare lontana. È naturalmente immediato – lo ha fatto anche Der Foederalist – simulare una coalizione maggioritaria di centrodestra con l’adesione di Renew Europe. Ma l’ostacolo principale appare a oggi la freddezza nei rapporti fra Macron e Meloni. forse insistita dal primo in via strumentale per mantenere la libertà di manovra propria di un grande capo di Stato Ue a Strasburgo e Bruxelles. Resta il fatto che Ecr è formato in realtà dai partiti al governo in due Stati di primo livello nell’Unione: l’Italia fondatrice e quella Polonia in cui il presidente Usa Joe Biden è atteso fra pochi giorni a un anno dall’inizio della guerra russo-ucraina. E Biden sarà ancora in carica – probabilmente ricandidato in autunno – quando l’Europa voterà per il suo parlamento e ridisegnerà i suoi organigrammi.
Quali altre “coalizioni” sono teoricamente possibili per porre paletti “democratici” ai giochi di palazzo dei Capi di Stato e di governo? Oppure per dar loro qualche parvenza di legittimazione elettorale. A destra sarebbero disponibili sulla carta i seggi di Identità & Democrazia (fra 70 e 80): ma restano – in partenza – numeri inutilizzabili per la pregiudiziale euroscettica/antagonista incompatibile col Ppe e anche con il riposizionamento di Ecr. Fra centro e sinistra, invece, si agita intanto il “modello tedesco”: la coalizione fra socialdemocratici, liberaldemocratici e verdi che regge il Governo del maggior Paese dell’Ue. Era del tutto inedita un anno fa in Germania; mentre l’intero 2022 si è dipanato all’insegna del cedimento dello storico “asse carolingio” fra Parigi e Berlino. Però nell’ultima settimana Francia macroniana e Germania “tricolore” si sono improvvisamente arroccate l’una con l’altra, dando vita a un’inedita “Europa nell’Europa”, a una singolare “Ue a due velocità” (ma non più individuata dai Paesi “frugali” del Nord). I due ministri dell’Economia sono volati assieme a Washington per protestare sulla “guerra dei sussidi” avviata da Biden. Scholz e volato a Parigi per accogliere con lui il Presidente ucraino Volodymyr Zelenski, per una tappa fuori programma da Londra verso Bruxelles. Un ex Presidente della Commissione Ue – il “dem” italiano Romano Prodi – ha avuto ieri parole più severe contro Macron e Scholz che contro Meloni.
Una coalizione rosso-verde-nera a Strasburgo sembra poter contare – sulla carta delle proiezioni odierne – su circa 280/290 voti: 140 da S&D; 100 da Re e fra 40 e 50 dai Verdi. Fuori perimetro resterebbe – a meno di colpi di scena – la cinquantina di voti della Sinistra Radicale. Ma chi potrebbe mettersi alla testa di una campagna euro-elettorale di “centro & sinistra”? Crescono in Europa i rumor sulla figura del premier finlandese Sanna Marin: già dotata di un solido appeal mediatico. È una giovane leader progressista del Nord Europa (agli euro-antipodi rispetto alla “meridionale” Malta). È la portabandiera di tutte le cause “politicamente corrette”: a cominciare da quelle ambientaliste della svedese Greta. E con la Svezia, la Premier di Helsinki ha chiesto l’immediata adesione alla Nato dopo l’aggressione russa dell’Ucraina. Ma a differenza di quella di Stoccolma (bloccata da un’escalation polemica con la Turchia in parte legata alla svolta elettorale svedese verso la destra nazionalista), la “scelta di campo” della Finlandia potrebbe avvenire nei tempi previsti: attirando su Marin anche le simpatie di molti elettori – progressisti e non – delle repubbliche baltiche. Oppure centroeuropee: come la Repubblica Ceca, dove da due settimane è diventato presidente della Repubblica un ex generale della Nato. Il nuovo “Scholz-Macron” pensiero è una classica “terza via” replicata nello scenario di una Ue schiacciata dalla Nato nella confrontation Usa-Russia & Cina. Marin ne sembra un’interprete potenzialmente adatta: almeno come “segnaposto” ora. In attesa che nei prossimi dodici mesi facciano le loro mosse Biden, Vladimir Putin e tutti gli altri major player. Alla fine, naturalmente, voteranno gli europei.
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