L’Italia dal 1992 gode di una fama internazionale molto particolare. C’è l’Italia invidiata e ammirata per la sua qualità della vita, per l’arte, l’ingegno, la bellezza che da sempre le dona quel quid in più, l’Italia che abbiamo nel cuore quando viaggiamo, che ci portiamo con noi quando siamo all’estero. Esiste però poi una versione dell’Italia amplificata dai media e dal “sentito dire”, quel “sentiment” che oggi sorvola la virtualità dei social: Italia spendacciona, italiani furbi e poco lavoratori; le notizie più nefaste fatte passare per routine.
Stiamo parlando di un Paese che nel 1992 viveva Tangentopoli, le stragi di mafia e perfino gli attentati, ma che era ancora un membro influente di Cee e G7. Una potenza industriale, quella italiana, che aveva vissuto i rampanti anni 80 diventando la quarta economia del mondo (non è mai uscita dalle prime dieci e oggi oscilla, in una summa di statistiche, tra settima e ottava posizione).
Il 1992 sconvolse un Paese che sorprese per iniziativa (Enimont fu l’eterna incompiuta, la fusione tra pubblico e privato che avrebbe consolidato la potenza italiana della chimica nel mondo), sfornava brevetti e primeggiava per qualità industriale.
Come siamo arrivati alla situazione attuale? Sono passati 28 anni e forse è un miracolo che il nostro Paese sia ancora nei primi dieci al mondo, soprattutto con gli ostacoli che si trova a fronteggiare. In primis da parte dell’Unione Europea: noi, che siamo stati fondatori e ispiratori del progetto, oggi siamo trattati con sufficienza da una Commissione che pare più un club oligarchico.
Iniziamo dai parametri. L’Ue, a differenza della Cee, avrebbe dovuto portare a un progetto simile a quello americano: mercato, moneta e sistema bancario unico. In realtà, la moneta euro non è bastata, la sua funzione non è neanche paragonabile a quella del dollaro, il valore varia tra Stati, creando quello “spread” che ne certifica il malfunzionamento. La California sarà sempre più ricca del Minnesota, motivo per cui i padri fondatori Usa hanno lasciato libertà di bilancio agli Stati, con possibilità di deficit coperto dalla Fed (la banca centrale Usa). La Bce non ha questo ruolo e l’euro, moneta forte, ha ancorato economie flessibili (non deboli, si badi) a parametri di debito e Pil svincolati dalla produzione. I differenziali infatti penalizzano Paesi come l’Italia (meno la Spagna, che non ha di fatto un’industria sviluppata) che da sempre hanno compensato con la flessibilità monetaria, di fatto contenendo il debito pubblico (nel caso italiano coperto dalla quarta riserva di oro mondiale) ed erogando titoli di stato solidi, accompagnati da Iri e aziende di Stato che certificavano la nostra produzione.
Dal 2002 invece siamo entrati in regime euro, moneta forte che ha mandato in crisi la nostra bilancia commerciale e ci ha resi meno competitivi in export (favorendo Francia e Germania, nostri competitor). La Germania ha di fatto accettato l’euro perché sostitutivo del marco e la Francia ha mantenuto il proprio nuovo impero coloniale, di fatto comprando le materie prime in franco coloniale. Oltre a ciò Parigi ha più volte sforato il parametro del famigerato 3% e non rispettato il pareggio di bilancio (inserito dall’Italia in Costituzione, di fatto un abbraccio mortale tra Stato e neoliberismo d’austerità). Austerità che in questo periodo manca ai Paesi detti “frugali”, ovvero Austria, Svezia, Danimarca e Paesi Bassi, quattro Paesi vassalli della Germania (come tutto l’Est, come testimonia la crisi della filiera della carne made in Germany).
La narrazione vigente, però, vuole l’Italia come spendacciona, irresponsabile e quasi come unica colpita dalla crisi Covid-19. Siamo nel mirino per il nostro debito pubblico, pur sapendo che non genera crisi, al massimo attacchi speculativi verso i titoli di stato se declassati dalle agenzie di rating.
Se però, invece di ragionare in termini di debito pubblico, nel nostro caso in mano italiana e coperto da più garanzie, ragioniamo di debito privato in rapporto al Pil, normalmente l’Italia è associata all’Austria (48,8%), alla Svezia (88,5%), Olanda (99,8%), Danimarca (112%). Mentre l’Italia si ferma, per il debito privato, al 40,5% del Pil. Un confronto che rasenta l’analfabetismo economico, perché il nostro Paese va confrontato con Francia, Germania, Uk e al massimo Spagna, non con Paesi dalla produttività inferiore al nostro Nord Italia. Può la seconda manifattura europea confrontarsi con la Svezia, un Paese che ha gli stessi abitanti della Lombardia?
Esistono due modelli economici macro: il consumo a debito dei privati e l’indebitamento a supporto della spesa pubblica. Il primo piace al capitalismo e all’alta finanza. Debito privato vuol dire spesso salvataggio pubblico (ad esempio, delle banche). Ma la stabilità dei sistemi finanziari è messa a dura prova proprio dall’esplosione del debito privato, non per nulla le crisi finanziarie più devastanti (1929 e 2007) sono state crisi del debito privato e non del debito pubblico. Inoltre, aspetto non da poco, il debito pubblico, diversamente da quello privato legato ai consumi, può essere finanziato con lo strumento della monetizzazione del debito (nel caso europeo la Bce acquista titoli di stato come la Fed). Il difetto? Non rende ai capitali privati.
Non per nulla sistemi basati sul debito privato, dalla Danske Bank in Danimarca alla Swedbank AB in Svezia, all’austriaca Raiffeisen Bank International AG hanno avuto problemi con l’anti-riciclaggio causato da fondi russi e la banca olandese Rabobank ha accettato di pagare 369 milioni di dollari al Governo statunitense dopo essersi dichiarata colpevole di riciclaggio di denaro sporco dal Messico, come riportato dal Sole 24 Ore. Mentre i Paesi Bassi – che di fatto operano come vero e proprio “paradiso fiscale” all’interno dell’Ue, e ai quali piace sferzare l’Italia – sono una sorta di Stato-banca in cui gli speculatori infilano i propri guadagni senza particolari controlli.
In queste ore in Germania fanno scalpore i miliardi spariti dello “Steve Jobs” tedesco e il crollo in Borsa della Wirecard, società di pagamenti digitali che dopo l’ammissione sui “due miliardi forse mai esistiti” è finita nella bufera. È finita sotto accusa anche l’autorità tedesca di vigilanza (la nostra Consob) che ha ammesso: “La più grande vergogna, non l’abbiamo impedita”.
Come si vede, se s scava sotto la superficie di trova un quadro diverso da quello che nel 2011, con l’Italia “bombardata” a colpi di spread, metteva tra i Piigs un Paese del G7 come il nostro, che da sempre è attento al risparmio e lavora in media più ore di tutti in Europa per comprare la casa e far studiare i figli.
Una narrazione, quella circolante in Europa in questa difficilissima fase post-Covid-19 e di politiche degli aiuti, che dobbiamo impegnarci a cambiare. Di fatto abbiamo partecipato a un campionato di calcio in cui la sconfitta degli altri valeva quattro punti e una nostra vittoria uno. Un modo come un altro per non farci vincere lo scudetto.