Dopo la vittoria di Trump alle presidenziali Usa, l’Europa cerca di correre ai ripari a fronte di uno scontato cambiamento di contesto internazionale. Ma deve fare al contempo i conti con l’instabilità politica dei suoi due principali Paesi guida, la Francia e la Germania. «Mi sembra che gli ultimi avvenimenti stiano portando a una presa di coscienza da parte del continente europeo sul fatto che anche le politiche fiscali adottate nel post-Covid sono eccessivamente austere rispetto a quelle che Mario Draghi ha definito le esigenze esistenziali del nostro continente», evidenzia Gustavo Piga, Professore di Economia politica all’Università di Roma Tor Vergata
È un po’ paradossale che questa presa di coscienza arrivi a pochi mesi dalla riforma del Patto di stabilità e crescita…
Una riforma sbagliata, che l’Italia non avrebbe dovuto firmare perché ribadisce l’esigenza di un ordinamento fiscale austero. Probabilmente questa presa di coscienza è stata accelerata non solo dal fatto che Cina e Stati Uniti continuano a crescere molto più dell’Ue grazie a politiche fiscali ampiamente espansive in deficit, ma anche dalla crisi politica dei due principali Paesi membri, Germania e Francia, e dal ritorno di Trump alla Casa Bianca. Questo nuovo contesto esige una politica fiscale europea espansiva che stimoli la domanda interna, anche perché quella estera potrebbe essere bloccata dal protezionismo di Trump.
Di fronte a questo protezionismo, la soluzione più semplice per l’Europa non potrebbe essere quella di cercare una convergenza con la Cina?
Sia la Cina che gli Stati Uniti stanno muovendosi per potenziare la propria domanda interna, ma l’Europa non ha fatto nulla su questo fronte e credo sia giunto il momento di agire. È ormai troppo tempo che abbiamo smesso di parlare di consumi e di investimenti, sia pubblici che privati: per noi europei è diventato fondamentale basare la crescita sulla domanda interna e non estera.
In cosa dovrebbe consistere concretamente la politica fiscale espansiva europea richiesta dall’attuale contesto internazionale?
Anche Mario Draghi sul Financial Times ha elogiato il tentativo intrapreso dal Governo britannico di Keir Starmer, basato su un bilancio di parte corrente in equilibrio e una golden rule sugli investimenti pubblici, selezionati tramite un’accurata spending review. L’idea di fondo è quella di spingere la crescita e abbassare in tal modo il rapporto debito/Pil nonostante l’incremento del deficit. C’è anche un altro aspetto interessante in questo tentativo di Londra.
Quale?
Si persegue l’equilibrio del bilancio di parte corrente non tagliando la spesa per far sì che si allinei al gettito fiscale, ma aumentando le tasse in modo che vi siano entrate sufficienti per spese che vengono ritenute importanti, perché destinate al capitale umano e sociale del Paese, come quelle per la sanità o la scuola, fondamentali per garantire pari opportunità alle fasce più deboli e svantaggiate della popolazione. Mi vien da dire, pensando ad esempio a quello che hanno fatto i Democratici negli Stati Uniti, che finalmente c’è un partito di sinistra che fa cose di sinistra.
Dunque, l’Europa dovrebbe prendere esempio da Londra?
Sì, è un bell’esempio che non dovremmo lasciar cadere nel vuoto per appropriarcene, dato che è compatibile con la ripresa della nostra crescita in un momento di grave difficoltà complessiva continentale e facilita la discesa del rapporto debito/Pil.
Dovrebbe essere, quindi, Bruxelles a portare avanti questa politica che prevede investimenti pubblici, magari tramite l’emissione di debito comune, come richiesto da Draghi?
Occorre prendere atto che non c’è sufficiente coesione tra i Paesi europei per pensare di poter cedere la politica fiscale nazionale e centralizzare la gestione dei fondi come negli Usa. Non è una questione di sovranismo, ma di giusti interessi nazionali da tutelare.
Cosa occorre fare allora?
Bisogna comprendere che questa politica fiscale espansiva può essere attuata dai singoli Stati membri. È vero che ci sarà minor coordinamento e che quindi sarà possibile una qualche perdita di sinergia, ma riusciremo almeno a ottenere un consenso per una politica che aiuterà tutta l’Ue a uscire da una palude che rischia di far saltare per sempre il progetto europeo. Non dimentichiamo che la Germania dovrebbe andare al voto a febbraio e che tra meno di tre anni ci saranno le presidenziali francesi, che potrebbero essere vinte dal Rassemblement National.
La Germania sarebbe d’accordo con questo tipo di politica fiscale europea?
Non trascurerei la gioia dei Socialdemocratici per essersi liberati, anche a costo del rischio di elezioni anticipate, del peso austero nella coalizione dei Liberali, che ha bloccato in questi anni l’evidente necessità per la Germania di una politica fiscale espansiva. Che se messa in atto da Berlino, chiaramente non potrebbe non essere adottata anche dagli altri Paesi membri. Ovviamente l’Italia dovrebbe anche garantire l’attuazione di una vera spending review, che è cosa diversa dai tagli lineari che rischiano di danneggiare l’economia, comprensiva di una riqualificazione delle stazioni appaltanti visto che il Pnrr sta dimostrando che non funzionano.
Per far sì che ci sia la golden rule sugli investimenti bisognerebbe, comunque, modificare il Patto di stabilità che, come detto prima, è stato riformato pochi mesi fa…
È vero. Ma anche per il debito comune europeo occorrerebbe mettere mano ai Trattati. Oggi, però, c’è poco da disquisire sul debito comune, va fatto debito nazionale immediatamente, perché avrà la stessa potenza e non richiederà la lunga attesa necessaria a che tutti i Governi e i popoli europei siano pronti a un passaggio federativo così importante.
(Lorenzo Torrisi)
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