Nella drammaticità della “seconda ondata” la questione del Mes fa assumere al governo una dimensione surreale. Il premier Conte ha rinviato ogni decisione in merito a dopo il congresso del M5s (Stati generali). Una prassi del governo in attesa dell’assemblea nazionale di partito che nella prima repubblica era definita “governo balneare”. Il rinvio rispecchia la convinzione non solo di Conte, ma anche dello stesso ministro dell’Economia, Gualtieri, che il ricorso al Mes non sia così urgente dal momento che possiamo contare sui 209 miliardi del Recovery Fund.



Ma sono davvero sicuri questi 209 miliardi? A parte il fatto che l’anticipo di 20 miliardi sarà autorizzato nella migliore delle ipotesi a giugno-luglio, sull’intera vicenda del Recovery Fund gravano vari punti interrogativi. La criticità della sua gestione è evidente di fronte alla catena di ostacoli, resistenze e verifiche che si frappongono ogni volta che se ne parla nei vertici dell’Unione soprattutto in riferimento all’Italia. L’austriaco Sebastian Kurz ha così sintetizzato la questione italiana: “I fondi saranno legati alle riforme e ci renderanno più competitivi? Oppure saranno sperperati in progetti come il reddito di cittadinanza e i buoni vacanze?”.



Il problema principale è costituito dal fatto che Angela Merkel con Emmanuel Macron di fronte all’emergenza della pandemia ha preso in mano le redini dell’Unione Europea (a cominciare dalla cassa delle risorse) mettendo in mora Commissione e Parlamento ed elevando a supremo organo decisionale il Consiglio dell’Unione Europea composto dai capi di governo o di Stato (se repubblica presidenziale) e presieduto dalla cancelliera. Si tratta di un’anomalia (se non un illecito stante il testo dei Trattati) e comunque è stato un errore con conseguenze negative.

Il vertice dei leaders di governo prese consistenza nel 1974 con l’Europa di soli nove membri. L’iniziativa decollò nel quadro di una rinnovata intesa franco-tedesca dovuta a Giscard d’Estaing e Helmut Schmidt, entrambi ex ministri economici, che avevano sostituito Georges Pompidou e Willy Brandt che invece erano stati spesso in conflitto.



Questo organismo finalmente formalizzato a Maastricht e poi regolamentato nel Trattato di Lisbona ha un ruolo di messa a fuoco degli obiettivi strategici dell’Unione soprattutto in materia di politica estera e di sicurezza: presidenza a turno di un semestre con due vertici che devono consegnare indicazioni alla Commissione in quanto principale organo di governo. Nel 1985 la moneta unica decollò con la presidenza di turno italiana di Craxi affiancata in modo determinante dal presidente della Commissione Jacques Delors. Quando poi l’Italia ne ebbe ultimamente la presidenza con Renzi non si tenne nessun vertice vero e proprio, ma – in sostanza – solo una conferenza stampa del premier italiano con la Merkel e Hollande.

Improvvisamente ora è diventato l’“Olimpo” dell’Unione, il vero centro decisionale indipendentemente dalla Commissione. In soli dieci mesi si contano già 13 vertici. La contestazione di questo fenomeno non viene dal fronte anti-europeista, ma dal Rapporto del 12 ottobre della Fondazione Schuman che è il principale punto di riferimento dei movimenti federalisti ed europeisti e citato anche dal costituzionalista Stefano Ceccanti, deputato Pd.

Mentre secondo i trattati il Consiglio “definisce orientamenti e priorità politiche generali” e “non esercita funzioni legislative”, ora con il Recovery Fund invade il campo legislativo ed esecutivo e stabilisce addirittura piani finanziari pluriennali impegnando risorse proprie e a prestito. È quel che il Rapporto Schuman bolla come “organo sovrano onnicompetente e quasi permanente in contraddizione con lettera e spirito del Trattato (di Lisbona)”.

Ciò che in questo momento drammatico preoccupa maggiormente non è il profilo di legittimità. Congelare in materia Commissione e Parlamento (che sono organismi eletti per cinque anni in un quadro di integrazione politica dove si decide a maggioranza) e sostituirli con una dieta di 27 capi di governo (che cambiano e che si riuniscono con sempre crisi, elezioni politiche o regionali imminenti alle spalle) dove si esercita diritto di veto provoca frantumazione e indeterminatezza con continue promesse seguite da rinvii.

In questi mesi è scomparsa ogni dialettica politica in campo europeo. In particolare il Partito socialista europeo si è autoaffondato con i suoi premier e partiti impegnati su fronti opposti. Con il venir meno dei riferimenti politici che in modo trasversale, transnazionale, sostenevano l’Unione insieme a questa ri-nazionalizzazione è stato sospeso ogni processo di integrazione europea.

Si demonizza il sovranismo, ma poi si mette in scena un governo dell’Unione Europea che è un continuo braccio di ferro tra Stati sovrani in lite. Il pericolo non è soltanto quello di aver bloccato l’integrazione e di dare un’immagine litigiosa e a fatica operativa dell’Europa agli occhi di Usa, Cina e Russia, ma soprattutto di non dare certezza sulla concretizzazione dei progetti.

Il fatto che il governo italiano continui a rifiutare il Mes per capricci “di principio” dei 5 Stelle è a sua volta segno di fragilità e di avventurismo. I progetti che l’Italia sta immaginando per il Recovery Fund dovranno essere approvati non dalla Commissione (che decide a maggioranza e dove il voto negativo di un membro sarebbe irrilevante), ma dai  rappresentanti dei 27 governi a cominciare dal lettone che ha già minacciato per i fondi italiani diritto di veto.