In una fase di normalità geopolitica, un esito “too close to call” come quello delineato dagli exit polls delle elezioni politiche svedesi di ieri sarebbe un segno di salute per la civiltà democratica occidentale. La coalizione guidata dai socialdemocratici della premier Magdalene Andersson sarebbe in testa con uno “score” di poco inferiore al 50% ma superiore di alcuni decimali ai voti raccolti dal centrodestra, che candidava il leader del Moderate Party Ulf Kristensson. Secondo le prime stime, al Riksdag il centrosinistra potrebbe avere tre seggi di margine sull’opposizione: più di quanto abbia consentito ad Andersson di governare a Stoccolma nell’ultimo anno.



In attesa dei risultati reali la notizia della giornata è però certamente l’exploit degli Sweden Democrats: che sarebbero diventati il secondo partito svedese (e quindi il primo nel centrodestra), superando per la prima volta la soglia del 20%. La formazione della destra radicale guidata da Jimmie Akesson potrebbe quindi chiudere la sua partita elettorale quadruplicando in dodici anni la sua forza parlamentare: questo soprattutto grazie al netto peggioramento della sicurezza nelle grandi città svedesi, infestate di gang spesso legate all’immigrazione. Un risultato “testa a testa” sembra rendere in ogni caso ancor più difficile il (probabile) compito della Andersson: che nei giorni scorsi ha lanciato un drammatico Sos sulla situazione delle aziende energetiche, premute dalla “guerra delle sanzioni” fra Nato e Russia.



Neppure la Scandinavia – tradizionale area di stabilità politica, economica e sociale a livello globale – appare più un punto d’appoggio sullo scacchiere europeo spazzato dalla crisi russo-ucraina. Assieme all’Europa orientale e balcanica, la regione scandinava è una delle Europe periferiche che hanno “annacquato” nel tempo la “core Ue” continentale fondata a Roma nel 1957. L’espressione puntuale, di tono critico, compare nell’ultima nota periodica pubblicata sul Corriere della Sera da Sergio Romano, ex ambasciatore italiano a Mosca negli anni della fine dell’Urss. La riflessione di Romano – di poco più giovane di Henry Kissinger – ha riproposto lo stesso mix di preoccupazione e realismo che in queste settimane caratterizza le posizioni dell’ex segretario di Stato Usa sul futuro del “disordine mondiale”.



L’Europa dei Sei (Germania, Francia, Italia, Benelux), nel quadro interpretativo delineato, avrebbe dunque funzionato da meccanismo di compensazione per dinamiche geopolitiche esterne. La stessa Gran Bretagna – al pari della Russia alle prese con una faticosa stagione post-imperiale – ha utilizzato la Comunità europea per un quarantennio di aggiustamento globale: salvo poi staccarsene con un riflesso profondo, peraltro già in ridiscussione oggi nel lutto – tutt’altro che simbolico – per la Regina Elisabetta. Ma anche i Paesi dell’Est europeo, entrati in massa nella Ue dopo la caduta del Muro e i Trattati di Maastricht, hanno portato nella “core Europe” (consolidata sul quadrilatero Francia, Germania riunita, Italia e penisola iberica) una storia e una geografia diverse. E lo showdown russo-ucraino appare, al fondo, una delle ennesime “crisi balcaniche” che hanno costellato gli ultimi due secoli: anche attorno alle alterne vicende di un altro post-impero, quello ottomano.

Secondo Romano c’è un altro lungo “vuoto post-imperiale” – quello asburgico – nell’inquietudine di un Paese come l’Ungheria (attratta dalla Russia “zarista”); piuttosto che nel crescente anti-europeismo della Polonia, che considera gli Usa il vero riferimento geopolitico. E qualcuno si può stupire se la drammatica paralisi della Ue di fronte all’aggravamento globale sugli scacchieri economici, maturi – anche – durante la presidenza di turno della Repubblica Ceca? Un Paese che, fra l’altro, non partecipa all’eurozona: l’unica, vera “Europa unita”. Non usa l’euro neppure la Svezia, mentre la Norvegia non fa neppure parte della Ue, mentre è il caposaldo europeo della Nato a trazione Usa, che da sei mesi “ingabbia” la Ue nel bellicismo pro-Ucraina. Adottano l’euro le tre repubbliche baltiche: che (esemplare l’“incidente di Kaliningrad”) non mostrano remore nell’anteporre gli ordini Nato alle direttive Ue. E il vero “ministro delle Finanze” Ue resta ad oggi il lettone Valdis Dombrovskis: finora utile alla Germania nel pilotare premi e punizioni, minacce, condanne e assoluzioni sui bilanci dei 26. Ma può essere oggi una figura simile ad avere ruolo nella riscrittura delle regole finanziarie di Maastricht?

Pe questo nell’iper-realismo di Romano emerge una questione strutturale profonda. La violenta soluzione di continuità portata dall’aggressione russa all’Ucraina non fa risuonare la campana per l’Unione stessa? Che – a questo punto – potrebbe essere chiamata ad allargare il cantiere della riforma della governance economico-finanziaria alla ricostruzione integrale delle istituzioni comunitarie. Il mercato comune e la moneta unica sono state finora oggi la piattaforma più rilevante, ma energia e difesa si sono imposte prepotentemente come nuove dimensioni politico-strategiche. Forse c’è bisogno di metter mano anche a una Costituzione europea finora troppo astratta e inutile. L’Unione Europea non può più essere un “self service”: neppure per un Paese fondatore come l’Olanda che sta bloccando una decisione comune sulla crisi energetica per lucrare guadagni speculativi sugli altri Paesi membri. Quanto sta continuando a fare anche un altro grande Paese scandinavo: la Norvegia.

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