Tra le ragioni per le quali l’attuale Unione Europea è in costante crisi e una vera unità europea non riesce a decollare viene citato anche il principio di unanimità con cui vengono prese le decisioni comunitarie a Bruxelles. Pur considerando gli indubbi inconvenienti dell’unanimità, mi sembra che il problema reale sottostante sia la esiziale disparità esistente tra i 27 membri dell’Ue. Le differenze riguardano numerosi parametri fondamentali e rendono difficile individuare un meccanismo di decisione soddisfacente sotto tutti gli aspetti.



Il principio dell’unanimità conferisce un diritto di veto a ogni Stato membro indifferentemente dalla sua importanza. Se prendiamo come esempio la popolazione, Malta, con i suoi circa 500mila abitanti, ha lo stesso potere di veto della Germania, con i suoi quasi 84 milioni. Il rapporto non cambia sostanzialmente se prendiamo il secondo Stato meno popolato, il pur centrale e autorevole Lussemburgo, che non raggiunge i 650mila abitanti.



Se si volesse dare al voto di ogni Stato un peso proporzionale alla sua popolazione, i quattro Paesi più popolosi, Germania, Francia, Italia e Spagna, conterebbero per più del 55% e un’eventuale maggioranza qualificata di due terzi potrebbe essere quasi ottenuta aggiungendo la Polonia. Vale a dire che, anche in questo caso, cinque-sei Stati potrebbero imporre il loro volere agli altri. Se la maggioranza qualificata non tenesse conto della popolazione, sarebbe necessaria l’opposizione di 10 membri per non approvare una decisione comunitaria.

Sembrerebbero, senza dubbio, soluzioni più “democratiche” rispetto al diritto di veto di ogni singolo Stato, ma porterebbero alla luce le profonde contraddizioni dell’attuale Unione: un insieme di Stati che non ha alcun punto di riferimento concreto unitario, come potrebbe essere una Costituzione condivisa. Quest’assenza dimostra la mancanza di un fondamento costitutivo e finisce quindi per validare il principio di unanimità: si fa tutti solo ciò su cui tutti si è d’accordo. Cioè: ciò che più o meno conviene a tutti.



Ho parlato della popolazione, dimensione concreta come l’estensione territoriale e anche qui le differenze sono notevoli: si va dai 315 kmq di Malta ai 633mila della Francia. L’Italia, terza per popolazione, passa a ottava per estensione con i suoi 302mila kmq. Prendendo in considerazione il Pil pro capite e utilizzando le statistiche dell’Ue, che lo esprime in Spa (Standard potere d’acquisto), all’ultimo posto troviamo la Bulgaria, con 52, e al primo il Lussemburgo, con 262 (cinque volte tanto), seguita dall’Irlanda con 190. Sarà un caso, ma si tratta dei due Stati considerati una sorta di “paradisi fiscali” in Europa e, in più, il Lussemburgo ospita un numero straripante di istituzioni europee. La Germania è solo sesta con 124, preceduta anche da Paesi Bassi, Danimarca e Austria (129), l’Italia è dodicesima con 97, dopo Malta e prima della Repubblica Ceca.

Un altro problema rilevante è quello linguistico: la Cee nel 1958 aveva quattro lingue ufficiali, l’Unione Europea attualmente ne ha 24, inglese compreso. L’utilizzo nei documenti ufficiali di tutte le lingue, così come della propria lingua in ogni occasione di rapporto con le istituzioni europee, è riconosciuto dall’Ue non solo come un diritto, ma come uno dei principi fondanti dell’Unione. C’è da pensare che il lavoro di traduzione sia una delle fonti maggiori di lavoro, e di spesa, dell’Ue.

Quello linguistico non è un problema solo europeo, si pensi all’India con le sue parecchie decine di lingue, ma lì lo Stato ha una lingua ufficiale, lo hindi, coadiuvato dall’inglese come lingua ufficiale sussidiaria. Anche in Europa l’inglese è probabilmente la lingua più diffusa, si intende come seconda lingua, ma dopo la Brexit sembra improbabile che venga scelto come sola lingua ufficiale dell’Unione. Né è pensabile che francesi, tedeschi o spagnoli, e magari anche gli italiani, cedano il passo ad altre lingue. La Svizzera, ben più piccola dell’Ue, di lingue ne utilizza quattro, quindi l’Unione potrebbe usarne quattro o cinque, ma l’impressione è che anche questa sia una strada poco percorribile. Forse l’elogio del multilinguismo da parte dell’Ue è in realtà fare di necessità virtù.

D’altra parte, l’Ue in se stessa parla diverse lingue in tutte le aeree di cui cerca di occuparsi, dall’economia alla politica estera, come è emerso evidente in occasione della guerra in Ucraina. Gli interessi dei vari membri dell’Unione sono ancora troppo divergenti e, almeno in buona parte, oggettivi, quindi difficilmente superabili, come dimostra l’attuale crisi energetica. Condividere realmente le diverse necessità dei vari Paesi richiederebbe un’unità e una solidarietà che è difficile trovare persino all’interno dei singoli Paesi. Si pensi alle polemiche sotto questo aspetto in Italia tra Nord e Sud, ma in quasi tutti i Paesi europei c’è un Nord e un Sud, o un Est e un Ovest.

Forse è giunto veramente il momento di ripensare l’Unione Europea, di disfarla per rifarla più vera, lasciando che i popoli scelgano non solo le modalità, ma anche i tempi dell’unificazione. E nel frattempo, unire ciò che è già unibile, senza sovrastrutture burocratiche o tecnocratiche, tantomeno politicanti. Il mercato comune, già posto all’origine del progetto europeo, può andare avanti anche, anzi meglio, con meno presenza dell’apparato dell’Ue.

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