La riunione del Consiglio direttivo della Bce svoltasi ieri ha confermato la fine del programma Pepp di acquisto di titoli di stato avviato dopo lo scoppio della pandemia (lasciando però aperta la possibilità di una sua riattivazione nel caso le condizioni economiche dovessero peggiorare), ma soprattutto ha rivisto fortemente al rialzo, quasi raddoppiandole, le previsioni sull’inflazione nel 2022 rispetto alle stime di appena tre mesi fa. “Come atteso, le previsioni di inflazione appena diffuse – ci spiega Domenico Lombardi, economista ed ex consigliere del Fmi – sono state aumentate riflettendo un maggior grado di persistenza nella dinamica dei prezzi, inizialmente non adeguatamente incorporato nei dati forniti lo scorso settembre. Per il prossimo anno, la Bce si aspetta un tasso di inflazione del 3,2% (a settembre il tasso atteso era 1,7%) che dovrebbe convergere nel 2023-24 all’1,8%, appena sotto la soglia del 2% (era previsto all’1,5% a settembre). Tali previsioni vanno incrociate con quelle sulla crescita che, proprio per il prossimo anno, a fronte di un rialzo dell’inflazione non correttamente valutato, sono state, invece, ritoccate al ribasso. Il Pil dell’Eurozona crescerà il prossimo anno del 4,2% rispetto al 4,6% inizialmente stimato a settembre. Peraltro, con la crescente diffusione della variante omicron e possibili, ulteriori restrizioni all’attività economica, questo dato, vorrei sottolineare, è soggetto a una considerevole incertezza”.
Cosa ci può dire invece circa la decisione riguardante il programma Pepp?
Come in precedenza rilevato, la presidente Lagarde ha confermato la cessazione del Pepp, il programma di emergenza pandemico, entro il prossimo marzo che, peraltro, coincide con l’azzeramento del programma pandemico della Federal Reserve deciso mercoledì. Ha aggiunto Lagarde, tuttavia, che l’altro programma di acquisti non convenzionali (App) verrà potenziato, ma solo per il semestre successivo alla cessazione del Pepp, mentre i titoli a scadenza acquistati sotto il Pepp verranno rinnovati almeno sino al 2024 e non al 2023 come inizialmente previsto. Come dire, si cominciano a tirare i remi in barca, ma non troppo. E, in ogni caso, si può sempre tornare indietro reintroducendo il programma emergenziale, se necessario.
Alla fine, quindi, non si può dire che abbia prevalso la linea dei falchi, ma nemmeno quella delle colombe…
Il risultato del compromesso tra gli opposti campi che si sono fronteggiati, anche aspramente, nel Consiglio direttivo di ieri è sin troppo evidente, nel senso che il mix di decisioni consente a ciascun campo di vantare frecce per il proprio arco. Ora la palla passa ai mercati per capire come queste misure si tradurranno in dati di prezzo e, quindi, di spread sui titoli italiani. Va detto che, rispetto alla Fed, aumenti dei tassi di riferimento non sono ancora prevedibili, a differenza della Federal Reserve che dovrebbe cominciare già dai prossimi mesi e della Banca d’Inghilterra che ha cominciato proprio ieri.
Intanto sta cominciando a entrare nel vivo il dibattito sul Patto di stabilità e c’è da registrare l’importante presa di posizione di Draghi, che alla Camera ha evidenziato come le regole “hanno aggravato i problemi dei Paesi che si trovano in crisi, non hanno sostenuto i Paesi che ne avevano bisogno”.
Sì, nel suo intervento il presidente del Consiglio ha detto fondamentalmente tre cose sul Patto di stabilità. La prima, appunto, è che non solo non è servito a raggiungere i suoi obiettivi ultimi, ma ha addirittura messo in difficoltà i Paesi più fragili. La seconda è che la sua riforma deve essere coerente con il programma di trasformazione strutturale dell’economia europea avviato con il Next Generation Eu, che prevede investimenti che, ha evidenziato Draghi, “non sono pensabili con le attuali regole” fiscali dell’Ue. Infine, ha aggiunto un elemento nuovo, finora assente nel dibattito sulla riforma del Patto di stabilità: tra questi investimenti cruciali, incompatibili con le attuali regole, ha inserito anche quelli nella difesa. Dal suo punto di vista, quindi, occorre che le decisioni sul futuro della finanza pubblica tengano conto anche di questa dimensione di tipo geopolitico.
Draghi ha già parlato in questi mesi dell’importanza di arrivare a una Difesa comune europea. Ora sta forse dicendo che occorre anche che si stanzino risorse su questo fronte?
Credo che il presidente del Consiglio voglia ricordare che i Paesi europei condividono le medesime e crescenti minacce geopolitiche e per affrontarle nessuno si debba risparmiare; invece, occorre mettere in campo le risorse adeguate. Per quanto riguarda la Difesa europea, mi auguro che Draghi voglia e sappia trovare un punto di equilibrio per tutelare la nostra industria in questo settore. Tornando alle sue parole alla Camera, va ricordato che ha enfatizzato il fatto che la presidenza di turno dell’Ue nel prossimo semestre sarà assunta dalla Francia, Paese con cui recentemente l’Italia ha siglato un forte patto di cooperazione, il Trattato del Quirinale, quasi a indicare che Parigi e Roma saranno in grado di fare la differenza quando si arriverà alla decisione finale sul futuro del Patto di stabilità.
Mettendo insieme le dichiarazioni di Draghi e quelle di Macron della scorsa settimana sembra che Italia e Francia vogliano arrivare a una revisione della regola sul deficit/Pil, introducendo una sorta di vasta golden rule per scomputare alcuni investimenti pubblici.
Credo che incrociando queste dichiarazioni con quelle del commissario Gentiloni, il “partito” di quanti vogliono riformare il Patto di stabilità sia orientato esattamente in questa direzione. A ogni modo credo che l’obiettivo minimo che Italia e Francia debbano portare a casa sia quello di riconoscere un regime speciale alle spese per gli investimenti che l’Europa ci chiede di realizzare con il Next Generation Eu. Ciò anche per un discorso di coerenza rispetto alle iniziative messe in campo da Bruxelles.
Si può nutrire un po’ di ottimismo sull’esito di questo negoziato?
Recentemente alcuni Paesi considerati tradizionalmente falchi, o comunque contrari a una revisione in senso espansivo del Patto di stabilità, stanno abbracciando un percorso diverso, più in linea con quanto l’Italia e altri Paesi hanno già cominciato a fare, ovvero politiche fiscali espansive con un’attenzione al sociale. È il caso anche dell’Olanda, dove il nuovo Governo di Rutte, come ha ricordato anche il Financial Times, ha promesso un aumento senza precedenti della spesa pubblica, abbandonando di fatto le politiche d’austerità perseguite sin dal 2008. Dunque è probabile che il fronte che ha finora propugnato una visione più rigida nella riforma del Patto di stabilità sia un pochino più malleabile.
Lo sarà anche la Germania?
La scorsa settimana Scholz, poco dopo l’insediamento, si è recato in visita all’Eliseo e di fronte a Macron ha enfatizzato molto il tema della crescita, senza dimenticare però la necessità di lavorare sulla solidità delle finanze pubbliche. Come ha detto lo stesso neo-cancelliere, non c’è dicotomia tra crescita e stabilità dei conti, ma ha riconosciuto, in buona sostanza, che senza la prima è difficile ottenere la seconda. Credo che le sue parole abbiano una valenza segnaletica importante visto che arrivano proprio da chi governa il principale Paese europeo.
Considerando la “svolta” olandese e le parole di Scholz, Italia e Francia non dovrebbero quindi trovare un muro invalicabile nel portare avanti le loro richieste…
Credo che nessuno, a maggior ragione il presidente del Consiglio italiano, voglia una riforma del Patto di stabilità che penalizzi l’equilibrio di lungo periodo delle finanze pubbliche. Nei prossimi anni, però, l’Europa dovrà lavorare, come peraltro ha cominciato già a fare, per far compiere un balzo, quantitativo e qualitativo, alla propria crescita. Andare a smorzare questo slancio non sarebbe che mortificante rispetto agli obiettivi che la stessa Europa si è data. Sembra, quindi, che le condizioni siano favorevoli, ma, come ha riconosciuto lo stesso Draghi, siamo solo all’inizio della discussione, che entrerà nel vivo l’anno prossimo.
(Lorenzo Torrisi)
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