Il nostro Paese, essendone il maggior beneficiario, punta molta sul Recovery fund. Jean-Paul Fitoussi, ospite oggi del Meeting di Rimini, pur riconoscendo l’importante passo in avanti compiuto un anno fa dall’Europa, ritiene che questo strumento non sia sufficiente a far fronte agli effetti della crisi e ciò appare evidente dal fatto che, come ha scritto recentemente l’economista francese, “nella fase post-pandemica gli Usa hanno già recuperato il Prodotto interno lordo del 2019, mentre l’Ue riuscirà a raggiungere solamente i livelli del 2003”.



Professore, se il Recovery fund non basta, come si può fare in modo che l’Europa non rischi di recuperare troppo lentamente il terreno perso con la crisi pandemica?

L’Europa dovrebbe crescere più velocemente. Il Recovery fund non basta, dovrebbe essere più grande. Questo vuol dire che o l’Europa non ha compreso l’ampiezza della crisi oppure che, a causa di una forte sfiducia tra gli Stati membri, non c’è volontà di mettere in atto una maggiore solidarietà.



Una soluzione potrebbe essere quella di rendere strutturale il Recovery fund, che qualcuno vede come apripista degli Eurobond?

Gli Eurobond sono uno strumento che dovrebbe essere scontato in una federazione. Un bond europeo implica solidarietà totale rispetto al debito pubblico di ogni Paese membro.

Questo presuppone un passaggio politico molto importante.

Sì, il problema, come ho sempre detto, non è economico in Europa, ma di volontà politica.

Da quando Draghi si è insediato a palazzo Chigi sono cresciuti i contatti con Macron. Mattarella, inoltre, è stato recentemente in visita in Francia. Pensa possa nascere un asse Roma-Parigi capace di portare l’Europa in questa direzione?



In tanti abbiamo il sogno di portare l’Europa in un’altra direzione, bisogna provare a farlo con grande convinzione e coraggio. Francia e Italia da sole però non bastano, perché in Europa ci sono anche la Germania più i Paesi del Nord e quelli dell’Est. Ci sono sostanzialmente due blocchi di potenza diseguale in Europa e questo è in contraddizione con l’idea di una federazione. Per creare una federazione non bisogna fare la guerra, a meno che non prendiamo come modello l’America, dove la federazione è nata dopo una guerra civile tra Nord e Sud.

Molto si gioca quindi nelle elezioni tedesche di settembre?

Sì, molto si gioca nel voto in Germania e, per essere franchi, molto si gioca anche nella volontà dei popoli di far nascere un solo Paese. Se c’è una resistenza dei governi verso questo progetto, significa che essi non sentono questa volontà da parte dei popoli o credono di non sentirla. Come si dice in inglese, “the proof of the pudding is in the eating”, cioè per capire se il pudding è davvero buono come sembra occorre mangiarlo.

Come si applica questo detto al discorso che sta facendo sul futuro dell’Europa?

Per convincere i popoli bisogna mettere in atto delle misure che abbiano risultati positivi per loro. Per il momento questo non è stato fatto. Anzi, si sono messe in campo politiche che, essendo di austerità, hanno avuto conseguenze negative sui popoli, aumentando le situazioni di fragilità, la povertà, la precarietà, la disoccupazione, ecc. Adesso c’è la parentesi del Covid che, bisogna dirlo, è stato ben gestito a livello economico e sociale, non credo lo sia stato a livello sanitario. I Governi hanno impedito una crisi molto più grave di quella che abbiamo conosciuto. Non sappiamo però cosa accadrà più avanti, quando e in che modo si metterà fine ai sussidi che oggi vengono dati alle imprese e ai lavoratori. Tuttavia, una cosa sulla situazione futura dell’Europa la sappiamo già.

Quale?

Sulla base di quello che osserviamo oggi, gli americani hanno già recuperato i livelli di crescita pre-Covid, mentre gli europei sono ancora lontani, per alcuni Paesi potrebbero volerci due anni ancora. Questo vuol dire che la crisi ha impoverito l’Europa facendole perdere qualcosa come quattro anni di crescita normale.

Lei crede che dopo questa parentesi pandemica, in cui tra l’altro sono state sospese le regole del Patto di stabilità e crescita, tornerà l’austerità?

Chi credeva dopo la crisi finanziaria del 2008 che si sarebbe potuti tornare all’austerità? Nessuno, nemmeno io! Eppure l’austerità è tornata con ancora più forza di prima tramite il Fiscal compact durante la crisi del debito sovrano: non potevo credere ai miei occhi! Non penso che ora tornerà l’austerità come prima, ma nemmeno che si passerà alle politiche fiscali espansionistiche degli anni Ottanta.

Questo anche per via del problema del debito. Come lo si può ridurre, visto che poi i Paesi del Nord sostanzialmente chiedono questo agli altri membri dell’Ue?

Quando non c’è crescita, per ridurre il debito si ricorre all’austerità, che ha poi un effetto negativo sul rapporto debito/Pil, visto che il denominatore decresce. Se però torniamo a questa filosofia significa che non abbiamo imparato niente dalla crisi del Covid e che siamo pronti per entrare in una fase di stagnazione europea. La cosa drammatica è che gli altri Paesi non seguono la stessa politica, dunque l’Europa accumulerà un ritardo rispetto allo sviluppo del resto del mondo e questo implica che la sua voce si indebolirà nel concerto delle nazioni.

Per risolvere il problema del debito serve quindi la crescita.

Sì, la crescita, ma anche l’inflazione. Il problema del debito è sempre stato risolto con la crescita, l’inflazione o la cancellazione, mai però tramite le politiche restrittive.

Rispetto al tema dell’inflazione va quindi salutato positivamente il recente cambiamento dell’obiettivo strategico della Bce?

Sì, ma è fondamentale che in caso di crescita dell’inflazione aumentino anche i salari, le pensioni, ecc. Altrimenti non si farebbe altro che mettere in atto una politica di austerità in un altro modo, diminuendo cioè il potere d’acquisto dei cittadini.

Finora abbiamo parlato di come affrontare le disuguaglianze tra Paesi, soprattutto in Europa. Come si affrontano invece le disuguaglianze, cresciute durante la pandemia, all’interno di uno stesso Paese?

Per affrontarle bisogna prima capire come si sono create queste disuguaglianze. O almeno capire perché sono aumentate nei Paesi europei. Secondo me, ci sono almeno due risposte ovvie.

Quali?

La prima è stata l’austerità che ha portato a una riduzione del welfare state: c’è stata una decrescita delle spese nella sanità, com’è apparso evidente dopo lo scoppio della pandemia, e di quelle sociali in generale lasciando così spazio alla crescita delle disuguaglianze. Inoltre, abbiamo messo in atto una politica di aumento della competitività tramite una compressione salariale, un Paese contro l’altro, che ha aumentato le disuguaglianze. La quota salari sul Pil si è ridotta dappertutto. Questo implica che è incrementata la quota dei profitti. In buona sostanza, i dividendi sono cresciuti a dispetto dei salari. Questo fenomeno spiega in parte l’aumento delle disuguaglianze.

E l’altra parte del fenomeno come si spiega?

Deriva dall’alto livello di disoccupazione che abbiamo tollerato, alto livello che ha diminuito in un modo molto marcato il potere di negoziazione dei sindacati, cioè dei lavoratori, dando più forza quindi alle imprese. A questo dobbiamo anche aggiungere il fatto che i cambiamenti tecnologici hanno portato a una divisione più netta tra lavoro qualificato e non qualificato, con differenze importanti di reddito. In buona sostanza, i poveri sono diventati più poveri e si sono impoverite anche le classi medie.

Ci vuole quindi più lavoro e pagato bene.

Ovvio. Se viviamo in un sistema dove non si paga adeguatamente il lavoro, questo significa che la democrazia è in pericolo.

La transizione energetica può peggiorare la situazione, visto che ci sono tanti lavori a rischio?

Qui vedo un problema di cronologia: per fare la transizione ecologica bisogna prima risolvere i problemi che abbiamo. Occorre cioè prima ritrovare la piena occupazione e un livello salariale decente, solo dopo si potrà fare questa transizione senza incontrare la resistenza dei popoli. Del resto questo è quello che si è sempre fatto, anche negli anni 60-70 con la rivoluzione informatica.

Lei ha detto che Draghi è stato il miglior banchiere centrale che abbiamo avuto in Europa. Saprà essere anche un buon politico?

Io credo che Draghi abbia dimostrato un forte senso politico nella sua gestione della Bce e potrebbe averlo anche nella sua attuale funzione. Credo che potrebbe mettere in atto una politica fiscale molto avanzata, molto coraggiosa per risolvere i problemi dell’Italia.

Dovrà anche concordarla con Bruxelles…

Sì, ma concordarla con Bruxelles non basta. Dovrà concordarla anche con l’Italia, con i partiti della maggioranza. Cosa non semplice.

(Lorenzo Torrisi)

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