Si apre oggi il Consiglio europeo che dovrebbe votare i vertici della prossima legislatura: von der Leyen alla presidenza della Commissione, il portoghese e socialista Costa al Consiglio Ue, la premier estone Kallas alla politica estera europea. Fino a ieri sembrava che von der Leyen dovesse “trattare direttamente” con Giorgia Meloni i voti (e le poltrone) necessari a garantirsi la riconferma nell’emiciclo di Strasburgo, ma ieri, nella sua comunicazione in Parlamento, la Meloni ha attaccato l’accordo a tre popolari-socialisti-liberali, le “logiche di caminetto” e il fatto che gli accordi ignorino il voto dei cittadini. Segno che qualcosa si è guastato nelle ultime ore tra Chigi e Bruxelles, al punto che l’astensione dell’Italia potrebbe essere un’ipotesi concreta.
Nomine o no, l’Unione Europea è un malato sempre più grave. Abbiamo fatto il punto con Agustín Menendez, docente di diritto pubblico comparato e filosofia politica nell’Università Complutense di Madrid.
C’è una terna per i vertici dell’Unione: von der Leyen, Costa, Kallas. Qual è la sua opinione sulla partita dei “top jobs” europei?
Il potere lo esercitano le persone, e non è mai irrilevante – per dirla con Pietro Nenni – chi siede nella stanza dei bottoni. Quello che non è desiderabile è che la lotta si riduca a puro do ut des, come è difficile negare che avvenga in questo momento in Europa.
Ma non è sempre stato così?
Sì e no. Dipende molto dal modo in cui le persone, in quanto espressione dei gruppi politici, riescono a incarnare e articolare visioni della società, di contribuire a visioni del futuro. Purtroppo, le vere decisioni – sulla guerra e la pace, sulla “costituzione” del sistema socioeconomico, sul nostro rapporto con la natura – non si prendono in sede europea. Come diceva Peter Mair, la politica europea si è ridotta al governo del vuoto.
Il vuoto?
Sì. Chi si ricorda le promesse del cosiddetto sistema di spitzenkandidaten? Nel 2019 è stato ignorato, e nel 2024 combinato con quella che di fatto è una mutazione in salsa atlantista della Grosse Koalition europea. Nel governo del vuoto, le idee sono accessorie. Vengono ridotte a meri slogan. Questo non vuole dire, però, che sia irrilevante chi governa. Siamo a un vero e proprio bivio, e non soltanto in Francia.
Il voto dell’8-9 giugno sembra lontanissimo, si è tornato a parlare di procedure di infrazione, di Patto di stabilità, di “top jobs”.
Quelle del Parlamento europeo rimangono elezioni “di secondo ordine”: formalmente decidono chi saranno gli europarlamentari, ma in realtà sono una sorta di seconda tornata sui generis delle elezioni politiche nazionali. Questo fa sì che sia quasi impossibile determinare il senso complessivo del voto europeo: ci sono tanti risultati quanti sono gli Stati che votano. Non ci sono delle condizioni per l’emergere di una volontà generale europea. Si pensi agli esperimenti con candidati “transnazionali”, tipo Maurice Duverger numero due nelle liste del PCI nel 1979: sono stati abbandonati.
Dunque, se così stanno le cose…
Non c’è da stupirsi che siano gli esecutivi nazionali e gli eurocrati ad avere un ruolo decisivo, soprattutto in questo momento di “interregno”.
A parlare, infatti, sono sempre von der Leyen, Macron, Scholz.
Non va mai dimenticato che in questa Europa alcuni governi sono più uguali degli altri. Ma questa è una banalità. Forse più interessante, e meno banale, è osservare che ci sono attori non europei che hanno voce in capitolo. Si pensi alla nomina della estone Kallas. È l’ennesima prova dello slittamento verso Est del centro di gravità geo-strategico dell’Europa. Serviva un altro profilo, quello di un vero diplomatico, capace di creare ponti, non di farli saltare.
Giorgia Meloni ha affermato nelle ultime ore che con queste nomine si ignora il voto dei cittadini. È vero?
Lasciando stare l’anomalia tutta italiana di candidati che si fanno eleggere sapendo di non andare al Parlamento europeo, forse il suo disagio ha a vedere con il fatto che non è riuscita a diventare decisiva malgrado tutti gli sforzi atlantisti, “Nessun dorma” incluso (l’aria è stata cantata da Bocelli al G7, nda).
Nell’interregno tra le elezioni europee, la partita delle nomine, il voto francese di domenica, qual è il fattore più condizionante per l’Unione?
Nell’immediato, il fattore decisivo sarà il risultato delle elezioni in Francia. Non dimentichiamo che la causa ultima del risultato francese – e non solo – non è l’avanzata della Le Pen, questa semmai è una conseguenza. La ragione profonda sta nella lunga crisi strutturale dell’Europa, accelerata e radicalizzata dal salto in avanti dell’introduzione dell’euro ed entrata nella fase acuta con la gestione autolesionista della crisi dell’Eurozona. Questo sarebbe vero anche se Macron dovesse tirare conseguenze straordinarie della sua sconfitta e dimettersi il 7 di luglio.
Addirittura?
La Francia è l’anello più debole della catena, come aveva già segnalato Alberto Bagnai ne Il tramonto dell’euro. A mio modo di vedere, le dimissioni di Macron sono uno scenario che forse è improbabile, ma non è più impossibile. Non mi pare realistico un ricorso all’articolo 16 della Costituzione del 1958 (l’art. 16 disciplina “l’esercizio dei poteri eccezionali”, nda).
Si scrivono articoli su “La Francia in crisi di nervi: depressione e insonnia con il rischio del trionfo di Le Pen”, ma forse è più interessante chiedersi cosa potrebbe fare il RN in Europa dopo la vittoria.
Una tendenza chiara nell’ultimo anno e mezzo è la progressiva convergenza tra Renaissance, il soggetto politico al servizio di Macron, e il “nuovo” RN di Marine Le Pen. Il passaggio della legge sull’immigrazione del 2024 è indicativo. Infatti, per ciò che riguarda il programma economico e l’orientamento geostrategico e di difesa, il RN sta già facendo la stessa strada percorsa da Fratelli d’Italia.
Una mossa facilmente comprensibile in chiave elettorale.
Nel breve termine, in chiave elettorale o elettoralistica, ovvero come mezzo con il quale “pescare” gli elettori di Macron. Ma nel medio termine, fa parte di una strategia di “normalizzazione”, nella prospettiva delle presidenziali del 2027. Se sia una strategia vincente o meno ci lo dirà il tempo.
I problemi della Francia sono noti, ma, dallo spread ai conti pubblici, oggi si collocano in un contesto molto diverso dal passato. In questo quadro sono arrivate le apparentemente grottesche parole di Draghi sulla Svezia. E se quello dell’ex presidente della BCE fosse stato un messaggio molto preciso?
Mi permetta di cominciare da Draghi. Le parole sulla Svezia dimostrano di nuovo che talvolta Mr Draghi diventa Dr Mario. Basta rileggere, adeguatamente contestualizzate, la parole di Draghi sulla morte dello stato sociale nella famosa intervista al WSJ del 2012. Le parole sulla Svezia mostrano anche i limiti di Draghi come attore politico. Non ho mai capito il perché del “mito” di Draghi, ma credo sia assolutamente impossibile tenerlo vivo dopo il modo con cui ha giocato le sue carte per diventare Presidente della Repubblica italiana.
Torniamo a Parigi.
Il dato decisivo mi sembra essere la bilancia dei pagamenti francese, in deficit crescente dal momento in cui è stato creato l’euro. In questi 25 anni l’industria francese è stata ridotta in macerie, allo stesso tempo le disuguaglianze, personali e fra regioni, sono aumentate. La grandeur è stata azzoppata da un debito esterno pesantissimo, mentre la “fracture sociale” è diventata colossale. Le ricadute politiche si fanno evidenti nel 2017. Il trionfo di Macron è diventato possibile grazie alla sparizione del Partito Socialista e al ridimensionamento dei Repubblicani. È accaduto tutto molto velocemente. Il suicidio politico di Macron in soli sette anni dimostra che in poco tempo quasi tutto è possibile.
A proposito di regole UE. La procedura di infrazione contro l’Italia era già scritta, di fatto, nel nuovo Patto di stabilità. Ora ci aspetta un importante “fiscal effort”, si dice a Bruxelles. Tutto normale?
Al contrario. Il processo col quale si è arrivato al “nuovo” Patto di Stabilità dimostra che alla scienza politica europea servono psicologi e psichiatri bravi, capaci di spiegarci perché a Bruxelles si sono messi d’accordo su regole alle quali è materialmente impossibile obbedire, e chi le ha decise lo sapeva benissimo. Farei due breve considerazioni in aggiunta.
La prima?
Il cosiddetto “braccio preventivo” controlla l’andamento della spesa primaria netta di ogni Stato membro, essenzialmente pre-stabilita dalla Commissione. Il simpatico nome dato a queste istruzioni è quello apparentemente banale di “traiettoria di riferimento” o “informazioni tecniche”. Credo manchi una vera riflessione sia sulla capacità reale della Commissione di fissare in maniera minimamente intelligente quella “traiettoria”, sia sulla legittimità di farlo. Non è una questione tecnica, ma decisamente politica. Per evitare l’uniformità stupida che gli inglesi chiamano one-size-fits-all, rischiamo di creare un deficit democratico – un altro! – fin troppo evidente.
La seconda considerazione?
Il ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner ha vinto alla grande, facendo in modo che nella versione finale del Regolamento (UE) 2024/1263 il “fiscal effort” annuo sia molto forte. Questo comporta che se si vuole aumentare la spesa militare e allo stesso tempo ridurre deficit e debito, dovranno essere ridotte altre spese.
E si comincerà dalla spesa sociale.
Certo. Ma così facendo l’omogeneità delle condizioni sociali, senza la quale la democrazia non è possibile, sarà danneggiata ancora. Altro che modello svedese.
Tutti si aspettano che alla fine le regole vengano rese meno stringenti.
Ma allora, perché non fare subito regole più ragionevoli?
Ecco, appunto, perché?
In attesa che rispondano gli psicologi, azzarderei che, al di là delle preferenze politiche nazionali e personali, il problema è strutturale. La struttura dell’euro è assolutamente disfunzionale, ma i “costi” di una marcia indietro sono potenzialmente enormi. In linea teorica è facile immaginare come rendere funzionale l’euro, o come “disfare” l’Unione monetaria creando una sorta di SME 2.0. Ma non ci sono forze politiche con l’immaginazione e la legittimità per intraprendere nessuna delle due strade.
Il Pd, che agita le bandiere italiane in Parlamento, ha nuovamente depositato alla Camera una nuova proposta di legge di ratifica del MES. L’iniziativa fa eco alle sollecitazioni arrivate al Governo in sede ECOFIN. Qual è la sua opinione in proposito?
È difficile non arrivare a due conclusioni. La prima è che per il PD – ma non soltanto per il PD – la politica economica europea ha assunto da tempo un valore quasi religioso: è questione di fede. Ritengo sia un errore pensare che certe decisioni abbiano soltanto moventi razionali, o credere che essi siano preponderanti. Il libro che esemplifica bene questa sorta di culto, Euro sì. Morire per Maastricht di Enrico Letta andrebbe riletto, per capire bene la pulsione suicida di certe élites europee.
E poi? Sul MES intendo.
La nuova partita potrebbe essere quella di proporre un nuovo testo, una nuova “riforma” del MES per permettere a FdI e a una parte della Lega di accettare il Meccanismo, e al carrozzone inutile e pericoloso del MES di far parte del complesso “burocratico-militare” europeo. Ci sono già dichiarazioni in questo senso di attori politici non secondari.
Perché tutto questo sta avvenendo come se alle nostre porte non potesse accadere qualcosa di spaventoso? Come se ciò che è successo non fosse già abbastanza.
L’Unione Europea è un soggetto politico ambivalente. Il progetto europeo è stato certamente funzionale a combattere e vincere la Guerra fredda, ma è anche un progetto di pace interna ed esterna. È vero, la Comunità europea non è stata il fattore determinante della pacificazione dell’Europa Occidentale dopo il 1945, ma ha dato un contributo non minore, soprattutto nel lungo termine, e ha dato anche la possibilità ad alcuni Paesi, ex potenze spudoratamente coloniali, di cambiare strada, e di rifarsi una immagine. Ancora nel 2003, Robert Kagan ridicolizzava gli europei in quanto “figli di Venere”, cioè amanti della pace, mentre gli Usa erano legittimi “figli di Marte”.
Che fine ha fatto questa cultura della pace?
Dall’inizio del secolo è andata indebolendosi, ed è arrivata debolissima al momento cruciale del 2022. Adesso assistiamo alla frivolezza di politici che pronunciano discorsi guerrafondai senza avere fatto neppure il servizio militare.
Nel frattempo cosa è successo ai “figli di Marte”?
Il momento unipolare, basato sull’egemonia incontestata degli Usa, è finito. Indipendentemente delle loro intenzioni, gli americani non sono più capaci di creare ordine. È per questo che tutti i loro interventi recenti sono fallimentari, dall’Afghanistan al surreale porto artificiale di Gaza. Se fino alla fine della Guerra fredda noi europei cercavamo ancora di recuperare autonomia – si pensi alla politica estera di un de Gaulle o della prima repubblica italiana –, dopo la caduta del Muro abbiamo creduto che non ci fosse più bisogno di una politica estera indipendente. Né nazionale né europea.
E adesso pretendiamo di fare la guerra. Non è una bella prospettiva. Ci saranno ripercussioni sui governi “renitenti alla leva”?
Nel 2015, l’allora presidente della Repubblica Portoghese Aníbal Cavaco Silva si oppose a un governo di coalizione argomentando che della coalizione facevano parte forze politiche contrarie alla NATO. All’epoca poteva sembrare un commento bizzarro, oggi non c’è dubbio che l’atlantismo è parte della costituzione materiale dell’Europa e dei suoi Stati membri. La vera conventio ad excludendum oggi si applica a quelli che criticano apertamente la NATO. Non si arriva al governo se si è renitenti alla leva. Infatti l’unica diplomazia europea veramente fuori del coro è quella vaticana.
Eppure, “We must strengthen European sovereignty”, scrivono Macron e Scholz sul Financial Times. Dobbiamo rafforzare la sovranità europea.
Fin che l’Europa delega la sua difesa alla NATO, parlare di “sovranità europea” è semplicemente una contraddizione in termini.
(Federico Ferraù)
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