Nella serata italiana di mercoledì sono stati diffusi i verbali dell’ultima riunione del Fomc della Federal Reserve, conclusasi con la decisione di alzare i tassi di interesse dello 0,25%. Come ci spiega Domenico Lombardieconomista ed ex consigliere del Fondo monetario internazionale, ora Direttore del Policy Observatory della Luiss, dalle minutes «mi pare emergano almeno due elementi significativi. Il primo è che, a differenza dei mesi scorsi quando si enfatizzavano le conseguenze negative derivanti dal non alzare i tassi, ora alcuni membri del Fomc hanno sottolineato il costo insito nell’imprimere ulteriori restrizioni all’economia e, per contro, il vantaggio di una politica maggiormente attendista, il che implica che molto probabilmente si è arrivati al tasso terminale o vi si è molto prossimi».



Quale è invece il secondo elemento significativo che emerge dai verbali?

Il fatto che lo staff di economisti della Fed, nelle previsioni dello scenario centrale, non prefigura una recessione per quest’anno. Questo vuol dire che è stato scongiurato, almeno sinora, il pericolo che la mini-crisi bancaria dello scorso marzo trasmettesse, in misura significativa, i suoi effetti all’economia reale. Tale quadro appare in linea con un sentimento ormai molto diffuso nella comunità degli analisti americani che ritiene remota la possibilità di una recessione nel 2023.



Ed effettivamente la recessione si allontana negli Stati Uniti?

Sì, vi sono segnali di una certa resilienza dell’economia americana, supportati da un’ampia batteria di dati, come la crescita della spesa per consumi in termini reali e i circa 10 milioni di posti ancora non coperti nel mercato del lavoro. Finora, quindi, lo scenario evocato dal Presidente della Fed Powell di un atterraggio morbido dell’economia sembra essere confortato sia dai dati che dalle previsioni della maggioranza degli analisti.

Cosa farà a questo punto il Fomc nella prossima riunione in programma il 20 settembre?



Le attese convergono sulla possibilità che, come avvenuto a giugno, decida di lasciare i tassi invariati. Anche perché non si potrà trascurare quanto sta avvenendo in Cina, soprattutto visti gli ultimi sviluppi relativi al settore immobiliare.

Si riferisce alle difficoltà di Country Garden?

Sì, la più grande società immobiliare cinese ha comunicato il mancato pagamento delle cedole di alcune obbligazioni emesse sul mercato interno, ma si tratta della punta di un iceberg: ci sono tante altre società in difficoltà e, per come è congegnato, il settore immobiliare in Cina ha ramificazioni sia nell’economia reale che nella finanza pubblica dei Governi locali, che generano entrate fiscali anche grazie alla vendita di terreni a società del Real Estate. Non dobbiamo poi dimenticare un altro dato allarmante che arriva dalla Cina.

Quale?

A luglio è stata registrata una variazione negativa dei prezzi. Se il dato non restasse limitato a un singolo mese, è probabile che la seconda economia mondiale possa esportare deflazione nel resto del mondo con implicazioni importanti per gli Stati Uniti e l’Eurozona. Se questi segnali di stress che notiamo in Cina dovessero cristallizzarsi o involvere verso una vera e propria crisi, chiaramente si creerebbe da un lato maggiore pressione sui tassi e sul cambio del dollaro e dall’altro si indurrebbe la Fed a un atteggiamento maggiormente cauto e prudente proprio perché le condizioni di mercato diventerebbero più restrittive.

Visti i dati sul Pil diffusi mercoledì dall’Eurostat, per l’economia dell’Eurozona sembra più difficile possa esservi un atterraggio morbido.

I dati di Eurostat parlano di una crescita nel secondo trimestre dello 0,3%, ma si tratta di una media che nasconde una variabilità significativa al suo interno. Dopo la Germania, è entrata in recessione tecnica anche l’Olanda e vi sono altri Paesi con il segno meno, tra cui l’Italia. Chiaramente l’Eurozona, rispetto agli Stati Uniti, è stata maggiormente impattata dalla crisi energetica, che ha favorito un indebolimento congiunturale significativo, soprattutto perché concentrato sulla prima economica dell’Eurozona, la Germania. Se a questo aggiungessimo una situazione congiunturale cinese in crescente deterioramento, è chiaro che le prospettive per l’Eurozona peggiorerebbero in modo significativo. Bisognerà, quindi, vedere se le misure messe in campo dalle autorità cinesi saranno sufficienti a stabilizzare questi segni incipienti di crisi o se la situazione sfuggirà di mano.

Per la Bce tutto questo cosa implica, tenuto conto che non c’è una vera politica fiscale dell’Eurozona?

Già nella scorsa riunione del Consiglio direttivo la Presidente Lagarde aveva veicolato l’aspettativa di una possibile pausa nel ciclo di rialzo dei tassi per il mese di settembre. Credo che gli sviluppi che si stanno materializzando in Cina possano creare un ulteriore elemento di pressione a favore di una politica attendista di prudenza proprio perché l’Eurozona sarebbe esposta ai riverberi di una crisi del Paese asiatico senza avere a disposizione tutti gli strumenti che invece hanno gli Stati Uniti, tra cui una politica fiscale centralizzata, che può essere modulata in modo molto veloce ed efficace. Non dimentichiamo che i tassi di interesse sono cresciuti con una velocità e un’entità mai osservata dall’inizio dell’introduzione dell’euro, quindi una pausa nel loro rialzo, nel caso l’inflazione continuasse a diminuire, comporterebbe comunque un’ulteriore restrizione all’economia, dato che aumenterebbe il livello dei tassi reali.

(Lorenzo Torrisi)

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