Guerre, dazi, debito: l’economia mondiale è presa in una triplice trappola che ne limita la crescita. L’Unione Europea in questo scenario rischia grosso, stagnazione se non proprio recessione. I lavori autunnali del Fondo monetario internazionale hanno lanciato un avvertimento importante presentando una prospettiva densa di incognite. Un grande punto interrogativo riguarda gli Stati Uniti, che pure continuano a crescere, ma le elezioni aumentano le incertezze. Il rischio principale viene dalla spinta al protezionismo: dazi e tariffe colpiranno l’Europa, che esporta più di altre aree, e all’interno dell’Ue i Paesi che più si affidano ai mercati internazionali, tra questi naturalmente l’Italia.



Intendiamoci, l’outlook del Fmi è a tinte grigie, non fosche, tuttavia se leggiamo dietro le cifre e i grandi aggregati, troviamo uno scenario che non va sottovalutato. Il Fondo ha apprezzato la cautela della politica di bilancio italiana, tuttavia non ha mancato di richiamare il Governo. “Invitiamo i Paesi come l’Italia che hanno un debito alto a essere più ambiziosi”, ha detto l’economista Helge Berger che segue in particolare l’Europa. Gli impegni per la riduzione del disavanzo sono considerati necessari, ma non sufficienti a ridurre un debito che l’anno prossimo supera i 3mila miliardi di euro e continua a crescere anche per il trascinamento del famigerato Superbonus edilizio.



Ci vuole più ambizione, è vero, ma in che senso? Berger cita le riforme strutturali: sono fondamentali, tuttavia avranno effetto nel medio periodo, non subito. Che cosa si può fare per ridurre subito il debito pubblico? Vendere altri pezzi dello “Stato imprenditore”, in parte il Governo lo sta facendo, ma i ricavati pur importanti non saranno risolutivi. L’epoca delle grandi privatizzazioni è passata. Si può intervenire con misure drastiche, più tagli e più tasse, mentre s’aggira sempre lo spettro della patrimoniale. Però avrebbe un effetto recessivo, finendo per ridurre le entrate fiscali sui redditi. Un serpente che si morde la coda. C’è molto grasso nel pancione del bilancio pubblico, ma aggredire un debito pari al 138% del Pil con misure emergenziali o con l’austerità sarebbe dare un’altra spinta lungo il piano inclinato.



Gira e rigira l’unico modo per ridimensionare il debito sul Pil è tenere fermo il numeratore (cioè il bilancio) e aumentare il denominatore (cioè il prodotto lordo). Insomma, la via più realistica è la crescita, tuttavia oggi è forse ancor più difficile. Chi può dare una spinta allo sviluppo del Pil e come? Non può farlo la politica fiscale. Il piano Giorgetti non è recessivo, ma nemmeno espansivo, si mantiene su un sentiero neutro. Questo è necessario, non sufficiente.

Non può farlo la domanda estera: le esportazioni finora hanno fatto da locomotiva, l’anno prossimo si prevede che rallentino. I due Paesi verso i quali esportiamo di più, cioè la Germania e la Francia, sono nei pasticci. Il Governo tedesco ha i margini finanziari per aumentare le spese e la domanda interna, ma è in panne. Il modello tedesco è in crisi, lo aveva detto il Cancelliere Olaf Scholz, ma forse non ci credeva nemmeno lui. Quando la crisi strutturale è diventata anche congiunturale la Germania è entrata in recessione. Ma il Governo non ha idea di come farla uscire. Spendere in deficit non può se non si vuole che il partito liberale lasci la coalizione. Gli incentivi per l’industria già varati avranno effetto tra un anno. Intanto il Paese è fermo. Quanto alla Francia, ha davanti una stretta fiscale da 60 miliardi di euro (40 come tagli di spesa e 20 per l’aumento delle imposte).

In conclusione, l’Italia e la Francia non possono spendere, una per troppo debito l’altra per troppo deficit, la Germania potrebbe, ma è paralizzata. Con politiche fiscali sostanzialmente ibernate, una spinta potrebbe arrivare dalla politica monetaria. La Bce sta riducendo i tassi di riferimento e ha intenzione di andare avanti a spizzichi e bocconi, con un altro taglio da un quarto di punto. Christine Lagarde è preoccupata per l’impatto delle “tensioni geopolitiche”, tuttavia non crede al rischio recessione, pensa che l’inflazione non sia ancora debellata (gli aumenti dei due anni scorsi in effetti ancora pesano sul potere d’acquisto) e la sua parola d’ordine è avanti adagio, nemmeno fosse una discepola di Antonio Ferrer.

Eppure questo è il momento di uno scatto di reni. Un quarto di punto è troppo poco per invertire le aspettative: se è vero, come dice la Bce, che l’anno prossimo l’inflazione sarà al 2% o forse meno, non c’è ragione perché i tassi di riferimento siano al 3,4% e per i mutui si debba pagare come minimo il 4,7%. La Banca si riunirà ancora il 12 dicembre; possiamo aspettarci un dono di Natale, con una sforbiciata di mezzo punto percentuale? Ce lo auguriamo, sempre che la slitta trainata dalle renne non si fermi a Berlino e non riesca a scendere fino a Francoforte.

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