La Bce non ha tenuto conto delle pressioni in arrivo dal Governo italiano. L’istituto di Francoforte ha deciso, a maggioranza, di alzare i tassi per la decima volta di fila sostenendo che l’inflazione è ancora troppo alta. Per giunta lo staff della Banca centrale ha rivisto al ribasso le proiezioni del Pil per ogni anno fino al 2025, portandole allo 0,7% dallo 0,9% per il 2023 (meno di quanto previsto da Bruxelles solo una settimana fa), all’1,0% dall’1,5% per il 2024 e all’1,5% dall’1,6% nel 2025, Ce ne sarebbe a sufficienza per sostenere che Francoforte abbia commesso un errore paragonabile a quello del 2011, quando, su pressione della Bundesbank, il Presidente Jean-Claude Trichet praticò una stretta del credito mentre la frenata dell’economia avrebbe suggerito una strategia diversa, se non opposta.
Ma la risposta dei mercati finanziari è stata ben diversa. Dopo l’intervento di Christine Lagarde tutti i principali indici azionari si sono portati sopra la parità a cominciare da Milano (+0,2% da -0,15%) e Madrid. Intanto il cambio tra euro e dollaro, che si attestava a 1,0730 prima dell’annuncio, è sceso a 1,0690. Anche i Btp guidano il rimbalzo. Insomma, la vittoria dei “falchi” che hanno chiesto e ottenuto tassi ai massimi si è tradotta per paradosso in un trionfo delle colombe. Come si spiega questo esito a sorpresa?
Guardiamo il comunicato della Bce. Anche se all’apparenza madame Lagarde ha rifiutato di prendere impegni per il futuro, i mercati hanno letto con grande attenzione il passaggio del comunicato ufficiale in cui si sostiene che, “in base a quanto sappiamo oggi, il livello raggiunto dai tassi di interesse di policy (4% sul Depo 4,5% sul Refi) sia congruente con il raggiungimento del target di inflazione, almeno per quanto riguarda il ruolo della Politica Monetaria”. Nel linguaggio criptico dei banchieri, viene così rivelato il compromesso: i falchi hanno ottenuto l’aumento dei tassi, ma sarà probabilmente l’ultimo di questo ciclo. Si apre così in Europa, come in America, una fase in cui il costo del denaro non subirà variazioni a meno che eventi esterni (il boom del prezzo del petrolio, gli sviluppi della guerra ucraina o una nuova ondata della pandemia) non introducano nuove variabili. Altrimenti, la banca centrale resterà ferma nell’attesa che la medicina dei tassi produca i suoi effetti nel giro di 6-9 mesi. Il rischio recessione, visto dalla politica monetaria, non spaventa più di tanto.
Di qui il sollievo dei mercati, convinti che il vero pericolo per l’economia europea non risieda in una politica monetaria (giustamente) restrittiva finché non rientreranno i focolai di inflazione. Altro discorso riguarda la politica fiscale, ad alto rischio sia in Europa che in particolare in Italia. Pesa sul Vecchio continente la frenata dell’economia tedesca. Berlino finge di non preoccuparsi. Anzi, è la Bundesbank ad aver chiesto alla Bce tassi più alti, un po’ per frenare la spinta dei salari, un po’ nella convinzione (contestata nel sud Europa) che frenare la corsa dei prezzi farà ripartire i consumi. Intanto, grazie ai pacchetti per la difesa e i sussidi all’industria (tutti rigorosamente fuori bilancio per potere fare finta di avere i conti in pareggio) si cerca di alimentare la ripresa.
Ma a ogni crisi, l’industria tedesca (e quindi europea) restringe il suo perimetro. Continua insomma a eccellere nei suoi settori strategici, ma perde ogni volta un pezzo (questa volta l’industria energivora) e non riesce a entrare in settori nuovi. Intanto, come dimostra il faro acceso dalla Ue sull’import delle auto elettriche cinesi, l’Ue sta abbandonando l’ideologia libero-scambista che ispirava il trattato di Lisbona.
Non è affatto detto, però, che il declino dell’economia europea (negli ultimi 15 anni il reddito medio è fortemente calato rispetto agli Usa) dipenda dal credo nei benefici del commercio internazionale. Mario Draghi, nel suo articolo sull’Economist che ha preceduto l’incarico che gli è stato assegnato da Ursula von der Leyen per suggerire i modi della ripresa della competitività europea, la vede in maniera opposta: l’Europa paga il rifiuto a trasformarsi da area di libero scambio a un’effettiva federazione capace di promuovere una politica comune adeguata alle dimensioni della sfida globale.
Non saranno certo le trovate enogastronomiche del “made in…” o la creazione di poli nazionali sorretti dal denaro pubblico a ridar vigore a un sistema, quello italiano, che torna a frenare. Un po’ come la Germania salvo che, a differenza di Berlino, noi non abbiamo i capitali necessari per reagire. Ed è assai dubbio che possano crescere gli investimenti dall’estero per invertire una rotta che si tradurrà entro l’anno in un rovinoso aumento del rapporto deficit/Pil al 6,5%. Certo, di fronte a questi numeri, cresce la tentazione di prendersela con la Bce matrigna piuttosto che con Bruxelles. Ma questa litania, buona per convincere un elettorato credulone, non regge di fronte alle cifre.
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