La Commissione europea martedì ha presentato il programma Step (Strategic Technologies for Europe Platform) in risposta alla richiesta arrivata nei mesi scorsi da alcuni Paesi, tra cui l’Italia, di costituire un fondo sovrano europeo da affiancare all’allentamento straordinario alle regole sugli aiuti di Stato varato a inizio marzo per contrastare l’Inflaction reduction act degli Stati Uniti, che incentiva il trasferimento di importanti produzioni tecnologiche e industriali europee aldilà dell’Atlantico. Secondo Domenico Lombardi, economista ed ex consigliere del Fondo monetario internazionale, ora Direttore del Policy Observatory della Luiss, questa iniziativa di Bruxelles si collega con il dibattito in corso sulla riforma del Patto di stabilità e crescita, che vede undici Paesi, capitanati dalla Germania, opporsi alla proposta avanzata dalla Commissione europea, perché giudicata troppo morbida.
Innanzitutto, cosa pensa dello Step?
È stato appena presentato, quindi non si conoscono tutti i suoi dettagli, ma emergono comunque alcuni elementi degni di nota. Questo programma per incentivare gli investimenti in elettronica avanzata e tecnologie verdi e digitali a regime, in un arco pluriennale non meglio specificato, dovrebbe poter impegnare fino a 160 miliardi di euro in nuovi progetti. Va detto che in gran parte si tratta di risorse già esistenti, che vengono in qualche modo accorpate e razionalizzate per un uso più efficiente.
L’importo non sembra particolarmente significativo…
Sì, lo Step sembra rappresentare una risposta timida alla richiesta avanzata da alcuni Paesi Ue, per prima l’Italia, di dar vita a un fondo sovrano europeo, la cui costituzione viene, però, rinviata a data da destinarsi. Questo lascia trasparire un compromesso al ribasso che prende in considerazione le riserve espresse dai Paesi cosiddetti frugali a fronte di concessioni che questo stesso gruppo di Stati potrebbe fare nell’ambito dei negoziati in corso per la riforma del Patto di stabilità e crescita.
C’è, quindi, un collegamento tra lo Step e la riforma del Patto di stabilità e crescita?
Ritengo di sì. Sappiamo che la Commissione europea ha avanzato una proposta di riforma del Patto di stabilità e crescita basata su un percorso di aggiustamento delle finanze pubbliche concordato con i singoli Stati. Rispetto a questo principio, i Paesi del Nord e dell’Est Europa, guidati dalla Germania, chiedono che ci si avvalga anche di indicatori quantitativi, in particolare quello relativo alla riduzione del debito pubblico su Pil di almeno l’1% annuo da applicare alle economie ad alto debito.
Una richiesta che non trova la condivisione dei Paesi “mediterranei” dell’Ue.
Paesi come l’Italia e la Francia sostengono il principio della Commissione europea, che intende valutare il piano di aggiustamento fiscale in un’ottica di medio periodo, e sono restii a introdurre paletti quantitativi che ricordano troppo da vicino il vecchio Patto di stabilità, soprattutto per quanto attiene la riduzione del debito pubblico su Pil. Sembra esserci, quindi, uno scontro tra due diverse visioni dell’Europa.
Ovvero?
C’è chi richiede all’Europa un salto di qualità per fronteggiare le sfide che siamo chiamati ad affrontare nel campo della difesa, della transizione verde, dell’innovazione digitale, sull’onda anche dell’approccio inaugurato al tempo della pandemia con il Next Generation Eu, e chi invece assegna al Patto di stabilità e crescita la funzione di guardiano dei conti riproponendo logiche del passato che peraltro proprio in tema di sorveglianza dei conti pubblici non si sono rivelate molto efficaci.
I Paesi frugali non hanno molto bisogno dello Step, visto che hanno spazio fiscale per aiuti di Stato sul cui utilizzo c’è stato recentemente un allentamento, né hanno il problema di far rientrare il loro debito pubblico. Quanto il compromesso cui ha accennato può, quindi, essere accettato dei Paesi mediterranei?
Da parte italiana, ma anche francese, ci sono due ordini fondamentali di richieste. La prima concerne un trattamento contabile diverso per quanto riguarda gli investimenti, soprattutto quelli legati alla transizione ecologica e alla difesa, anche perché l’Europa è chiamata a fare di più su quest’ultimo fronte. La seconda riguarda l’ammorbidimento di vincoli numerici nella riduzione del debito, fermo restano il paletto del 3% di disavanzo pubblico in rapporto al Pil. Nella posizione della Germania e degli altri Paesi cosiddetti frugali si nota, invece, una sorta di cortocircuito.
A che cosa si riferisce?
Questi Paesi intendono annacquare l’impatto di iniziative strutturali come il fondo sovrano europeo e al contempo mettere dei paletti all’azione dei singoli Governi che vogliano conseguire gli stessi obiettivi del fondo tramite risorse proprie. Ci può stare che non vogliano prestare il loro consenso a che l’Europa crei un suo fondo sovrano, ma non possono, al tempo stesso, limitare l’utilizzo di risorse fiscali dei singoli Paesi per interventi sulla cui priorità c’è peraltro ampia condivisione a livello europeo. Alla fine si riuscirà a trovare un punto di mediazione che necessariamente, però, passerà da una diluizione di iniziative potenzialmente importanti come quelle di un fondo sovrano europeo, la cui costituzione, come detto, è stata rinviata a data da destinarsi.
Che dire, però, della posizione della Commissione, che chiede 50 miliardi aggiuntivi per il bilancio Ue da destinare all’Ucraina, ma non fa altrettanto per i settori strategici europei?
Questa è una contraddizione che diventa ancora più profonda nel momento in cui alcuni Paesi vogliono mettere dei paletti affinché gli Stati nazionali possano sopperire con risorse proprie alla mancanza di uno strumento comune europeo. Siamo nel mezzo di una trasformazione strutturale degli equilibri politici ed economici mondiali e c’è bisogno di una visione strategica proporzionata ai cambiamenti che l’Europa sta attraversando. In tal senso, gli aiuti all’Ucraina – che ovviamente non sono in discussione – vanno inseriti in una visione strategica dell’Europa più ampia.
Come diceva poc’anzi, le posizioni di Francia e Italia sono molto vicine e martedì c’è stato anche un incontro tra la Premier Meloni e il Presidente Macron. Un asse tra Italia e Francia può realmente funzionare?
Da sempre Roma cerca un equilibrio cooperativo con Parigi, la quale oscilla tra l’allineamento con Berlino e quello con l’Italia in funzione dialettica anti-tedesca su alcuni importanti dossier. Nell’ultimo periodo la posizione fiscale francese si è significativamente deteriorata, al punto che il rapporto debito/Pil è previsto avvicinarsi al nostro di pochi anni fa. Quindi, sul fronte della riforma del Patto di stabilità e crescita, la posizione della Francia non può non essere vicina a quella dell’Italia. Da qui, però, ad allargare questa convergenza a uno spettro ampio di dossier ce ne passa: bisognerà vedere caso per caso.
In queste trattative incrociate, che per l’Italia riguardano anche quella con Bruxelles sulle modifiche al Pnrr, rientrerà anche la ratifica del Mes da parte del nostro Parlamento?
La ratifica del Mes fa, a mio avviso, parte di una posizione negoziale di più ampio respiro che l’Italia sta intrattenendo con le autorità europee e con gli altri Paesi Ue. Detto questo, rimane il fatto che il Mes è un’istituzione da tempo inutilizzata, non certo perché l’Italia non ha ratificato la sua riforma. Occorrerebbero delle riflessioni un po’ più articolate rispetto a quello che dovrebbe essere il futuro di questa istituzione dal momento che siamo in mezzo a una trasformazione senza precedenti. Va rivisto un approccio superato che prevede una condizionalità ormai disallineata rispetto alle best practices internazionali. Il Mes dovrebbe essere un’istituzione al servizio dei suoi azionisti, ma non lo è da tanti anni visto che non c’è domanda per i suoi servizi: questo è il problema principale.
Bisognerebbe, quindi, cercare di aprire un confronto per una nuova riforma del Mes?
Se si intavolasse una discussione sul futuro del Mes, su come renderlo più proattivo rispetto alle esigenze dei suoi azionisti, credo che il Governo italiano non si tirerebbe indietro, anzi contribuirebbe in modo fattivo a questo tipo di discussione e a quel punto il dibattito sulla ratifica verrebbe di per sé superato.
(Lorenzo Torrisi)
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