Mentre Giuseppe Conte e Pedro Sánchez hanno chiesto che il Recovery fund parta il prossimo 1° gennaio, intervistato dalla Stampa Valdis Dombrovskis ha detto di sperare che i fondi possano essere erogati nella prima parte del 2021. Nel frattempo, ha ricordato il vicepresidente della Commissione europea, i Paesi membri possono contare su altri “strumenti già a disposizione”, tra cui “la linea di credito del Mes fatta su misura per questa crisi”, “spetta ai singoli governi dell’Eurozona decidere se utilizzarla”. Dopo le dichiarazioni del premier sul tema, ci vorrà una verifica di maggioranza, non in tempi stretti, per compiere una scelta definitiva sul Mes sanitario. Abbiamo fatto il punto della situazione con Massimo D’Antoni, professore di Scienza delle finanze all’Università di Siena.



Con le sue dichiarazioni di domenica sera, Conte ha riaperto il “caso Mes” nella maggioranza. Cosa pensa delle affermazioni del premier?

Una parola chiarificatrice era opportuna dopo mesi di segnali ambigui sulla intenzioni del Governo. Il premier nella sua conferenza stampa ha spiegato perché il Mes sia poco utile e probabilmente pericoloso. Questa sua posizione è stata interpretata come una chiusura rispetto a questo strumento, della quale non posso che rallegrarmi. Tuttavia, questa sua dichiarazione sembra aver scatenato molti malumori nella maggioranza di governo, in area renziana e nel Pd, che lo hanno costretto a fare una parziale retromarcia. Mi auguro che tenga duro sul rifiuto.



Cosa pensa invece di quanto ripetuto ancora sul Sole 24 Ore di ieri da Gualtieri, favorevole al ricorso al Mes sanitario, ma dando anche supporto alle “obiezioni” del premier?

Mi pare che il supporto del ministro Gualtieri si sia limitato alla conferma di una cosa ovvia, cioè che il Mes è un prestito e va restituito. È ovvio, ma bisogna dire che qualcuno ne parla come se si trattasse di una specie di regalo, di risorse aggiuntive che per noi non avrebbero alcun costo, quindi forse la precisazione non era superflua. D’altra parte, mi pare che nella stessa intervista sul Sole il ministro si sia dichiarato favorevole da sempre al ricorso al Mes. Questa sua posizione era nota e conferma che su questo tema la maggioranza è molto divisa al suo interno.



Dopo le elezioni regionali, un mese fa, sembrava imminente il ricorso dell’Italia al Mes. Lei come si spiega questa “frenata” del Governo?

I tassi di interesse sulle nuove emissioni di debito sono vicini a zero; a queste condizioni il vantaggio derivante dal risparmio di interessi che si avrebbe attivando il Mes, un vantaggio che andrebbe comunque rapportato all’insieme delle condizioni del prestito nonché alle sue implicazioni politiche, diventa molto esiguo. Nella situazione attuale, insistere a chiederlo rivela che le ragioni vanno al di là del presunto beneficio di bilancio. Sono ragioni politiche che non è così facile spiegare agli elettori.

Cosa pensa invece della volontà di Spagna e Portogallo (forse anche della Francia) di non utilizzare la parte a prestito delle risorse del Recovery fund?

Ancora il punto è poco definito, ma tutto lascia prevedere che l’accesso al Recovery fund avrà comunque delle condizionalità, forse non così diverse da quelle previste per il Mes. Il conto che devono aver fatto a Madrid e Lisbona è che può valere la pena accedere ai contributi a fondo perduto, ma dovendo indebitarsi è preferibile farlo sui mercati. Vale quanto dicevo sui tassi di interesse attuali particolarmente bassi. Anzi, c’è da chiedersi perché i governi non ne approfittino di più.

Anche l’Italia dovrebbe riflettere sui prestiti del Next Generation Eu?

Certo che dovrebbe. È un punto di cui abbiamo già parlato in passato. Soprattutto, l’Italia dovrebbe chiedere un chiarimento su come l’accesso a tale programma si colleghi alle regole di bilancio.

Conte e Sanchez hanno chiesto che il Recovery fund parta dal 1° gennaio. Sembra difficile riuscirvi. Qual è, secondo lei, il vero nodo che frena la partenza di questo strumento?

Da un lato c’è l’opposizione dei Paesi cosiddetti “frugali”, ma se ho capito bene il punto principale sono le condizionalità. Attenzione, non mi riferisco solo a quelle di bilancio che interessano maggiormente il nostro Paese: c’è la questione della cosiddetta rule of law, ovvero il rispetto di garanzie nel campo della giustizia, della tutela delle opposizioni, del pluralismo dell’informazione, che preoccupa alcuni membri Ue dell’Europa dell’Est; e qualche Paese teme forse che tra le condizioni entri anche la questione della concorrenza fiscale. Insomma, aumentare la quota di fondi europei rappresenta di fatto un’ulteriore cessione di sovranità, e a nutrire timori evidentemente non sono solo i cosiddetti “sovranisti”. È comprensibile che la trattativa vada per le lunghe, forse ha avuto troppa fretta chi ha venduto in anticipo la pelle dell’orso.

Nella sua intervista alla Stampa, Dombrovskis ha detto: “Se necessario siamo pronti a reagire con nuove proposte” se la crisi si prolungherà a causa della seconda ondata del Covid. Ha senso parlare di “reazione” e “nuove proposte” quando ancora il Recovery fund è al palo?

Buona osservazione. Una posizione speculare a quella di quei governatori di regione o sindaci che chiedono a gran voce il Mes e ancora non sono riusciti a spendere i fondi già stanziati per la sanità o i trasporti.

Il vicepresidente della Commissione ha anche detto che è in corso una consultazione pubblica per rivedere le regole del Patto di stabilità e crescita, ma che si utilizzeranno ancora quelle vecchie finché non ci sarà accordo sulle nuove. “In ogni caso non cambieranno quelli che sono i nostri obiettivi: supportare le politiche di bilancio e garantire la sostenibilità delle finanze pubbliche”. Si può sperare che le regole (definite “stupide” da Prodi) cambino davvero e che non determinino ancora squilibri tra i Paesi?

Sono tutti d’accordo a ritenere che le regole del Patto di stabilità non funzionino, ma attenzione: da quando Prodi le definì “stupide”, queste regole sono diventate molto più articolate e complesse. Per molti economisti e commentatori, soprattutto nei Paesi “rigoristi”, i motivi per cui non hanno funzionato sono proprio la complessità e la discrezionalità lasciata alla Commissione e al Consiglio, per tenere conto ad esempio della situazione generale di un Paese. Ora la richiesta è quella di aumentare gli automatismi e semplificare, mettendo al centro l’obiettivo di riduzione del debito con il minimo di eccezioni e deroghe. Per quel che ho visto delle proposte finora avanzate, non credo proprio che le nuove regole possano essere più morbide di quelle vecchie. Cambieranno le formule, si eliminerà un po’ di opacità, ma, come ha detto Dombrovskis, gli obiettivi non cambieranno.

Per l’Italia resta fondamentale l’azione della Bce. Questa azione potrà durare a lungo? È necessario che l’Eurotower faccia ancora qualcosa di più per sopperire ai ritardi delle altre istituzioni europee?

Finché il problema è generale prevedo che la Bce farà tutto quello che è in suo potere. È vero che la politica monetaria non può sostituire quella fiscale, ma l’acquisto dei titoli degli Stati consente a questi di intervenire con risorse adeguate. L’esperienza ci dice che i guai per noi potrebbero arrivare se restassimo indietro nella ripresa rispetto ai partner più forti. A quel punto tornerebbe a essere un problema nostro, come in fondo era un problema solo nostro la pandemia quando eravamo l’unico Paese in Europa a esserne colpito duramente.

(Lorenzo Torrisi)