Quale sarà l’effetto Trump sull’Europa e sull’Italia nessuno è ancora in grado di saperlo. Ma è evidente che l’economia e la politica di sicurezza collettiva saranno influenzate, anzi colpite, in modo determinante. Dazi e tariffe, ecco il fronte di quella che potrebbe diventare una vera e propria guerra commerciale. Secondo le stime meno rosee, una gamma di imposizioni tra il 10% e il 20% sulle merci europee importate negli Stati Uniti potrebbe far crollare l’export europeo fino a un terzo nei settori più sensibili: auto, macchinari, chimica che rappresentano il 67% di un interscambio che dà lavoro a 9 milioni e mezzo di persone.
La Goldman Sachs calcola che un dazio del 10% sull’import Usa dall’Europa farebbe calare il Pil dell’Eurozona dell’1%. Proiezioni più fosche calcolano che le misure di Trump rallenterebbero la crescita europea dell’1,5% entro il 2028. Teniamo conto che già ora la recessione tedesca sta provocando un rallentamento in tutti i Paesi più legati alla Germania, in particolare l’Italia. Si calcola che quest’anno si perderanno 3 miliardi di euro per il calo dell’export con una riduzione del Pil dello 0,2%; sembra poco, ma equivale a un quarto dell’intera crescita prevista quest’anno che dovrebbe attestarsi allo 0,8%.
Il Presidente americano intenderebbe introdurre un “Trump reciprocal trade act“, una legge che dovrebbe riequilibrare quello che lui considera un rapporto commerciale iniquo con l’Unione Europea la quale nel 2023 aveva un surplus commerciale di 123 miliardi di dollari. Il punto centrale della sua critica è che l’UE venderebbe “milioni e milioni di auto” negli Stati Uniti, mentre non accetterebbe abbastanza prodotti americani, in particolare nell’agricoltura e nell’automotive già in crisi nera con un calo della produzione nei grandi Paesi, particolarmente pesante in Italia (-42% gli autoveicoli, -50,5% le autovetture). La produzione industriale italiana è scesa del 4% su base annua, oltre all’auto cala anche il tessile-abbigliamento, altro settore che esporta negli Usa diventati negli anni scorsi uno sbocco sempre più importante per i prodotti italiani e che già paga dazi di oltre il 20% in media. Ancor peggio per le calzature, che arrivano al 37%.
È presto per fasciarsi la testa, ma non per mettere le mani avanti. È chiaro che l’Europa e l’Italia debbono pensare già adesso a un piano B. Finire in una sorta di gioco al rialzo porterebbe solo guai, innescando una guerra senza fine con un continuo gioco al rialzo. Nello stesso tempo, qualsiasi Paese europeo da solo non ha certo la massa critica per replicare. Sarebbe meglio se l’Ue mettesse in piedi un coordinamento tra Paesi e produttori, in modo tale da presentarsi con una posizione di forza sui mercati fondamentali. Facile a dirsi, difficile, finora impossibile, a farsi.
Nel primo mandato di Trump i dazi Usa previsti dal commissario al Commercio Robert Lighthizer (che dovrebbe tornare come cerbero degli scambi americani) avevano un valore di 11 miliardi di dollari ed erano stilati in una lista che comprende diverse categorie merceologiche, dall’aeronautica, con dazi applicati su nuovi elicotteri a uso civile, nuovi aerei e le relative componentistiche di provenienza principalmente francese, spagnola, tedesca e dal Regno Unito, ai prodotti alimentari, tra cui pesce, burro, formaggi come il pecorino, il parmigiano e il Roquefort, olio di oliva, marmellate, vini tra cui il prosecco, liquori e olii essenziali, fino a prodotti dell’industria tessile, plastica e della carta. C’è da spettarsi una replica allargata al comparto tecnologico e all’energia.
L’altro punto di maggior tensione è senza dubbio la politica estera e di difesa. La minaccia trumpiana di ritirarsi dalla Nato è propaganda elettorale, la richiesta a muso duro che i Paesi europei contribuiscano almeno con il 2% del Pil è molto più concreta. Del resto sono i Paesi europei a non aver rispettato l’impegno. L’Italia è tra quelli che non lo rispetteranno nemmeno nei prossimi anni. Lo ha fatto capire senza mezzi termini Giancarlo Giorgetti, mentre Giorgia Meloni ha detto “investire di più, ma senza costi sui cittadini”. Siccome non ci sono pasti gratis, chi paga? Trump non più, nessun Paese europeo è in grado o ha la volontà di assumersi costi altrui. Rispunta l’idea di maggiore flessibilità nelle regole di bilancio sottraendo le spese per la difesa e il Governo italiano vuole “riaprire il dibattito”. Campa cavallo. Trump metterà subito la questione sul tavolo chiedendo risposte in tempi stretti. Riaprire il dibattito è un escamotage per prendere tempo.
La preoccupazione di non togliere il burro per fare cannoni è fondata, sia chiaro. Ma più che dibattere occorre mettere a punto un preciso piano europeo con scadenze certe e ravvicinate per finanziare le spese per la difesa. Perché non pensare allora a eurobond emessi a questo scopo? Ciò potrebbe essere una scorciatoia in attesa che il dibattito porti a qualche risultato concreto. Potrebbe esserci interesse anche sul mercato finanziario alla ricerca di impieghi redditizi e garantiti.
Si fa presto a fasciarsi la testa o a criticare il neoprotezionismo trumpiano, ma forse sarebbe ora di prendere decisioni chiare e immediate, come Mario Draghi ha invitato a fare nel suo intervento al vertice di Budapest. “Con Trump ci sarà una grande differenza nei rapporti con gli Usa, l’Europa non può più posporre le sue decisioni”, ha rimarcato l’ex premier italiano. “Il sistema bancario è solido, i risparmi vanno incanalati in investimenti produttivi nell’innovazione”, è stato il senso del suo discorso. Sarà ancora una voce nel deserto?
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