Con il dato definitivo comunicato mercoledì, l’ultimo trimestre del 2023 si è chiuso con un Pil in crescita del 3,2% per gli Stati Uniti. In Europa, invece, la stima flash di Eurostat parlava di una crescita zero sia per l’Eurozona che per l’Ue. Il divario tra le due sponde dell’Atlantico continua ad aumentare e, come ha spiegato la scorsa settimana Mario Draghi, riguarda anche la produttività. Per questo servirebbero ingenti investimenti, pari a 500 miliardi di euro solo per le transizioni green e digitale.
Come evidenzia l’ex direttore del Sole 24 Ore Guido Gentili, «sembra riproporsi il tema che fu lanciato dal giornalista francese Jean-Jacques Servan-Schreiber, fondatore del settimanale L’Express e successivamente ministro delle Riforme nel Governo di Valéry Giscard d’Estaing, quando nel 1967 scrisse il libro “La sfida americana”, nel quale spiegava che l’economia degli Stati Uniti stava correndo a un ritmo impensabile per l’Europa e ne sarebbe conseguito un divario difficilissimo da colmare».
La situazione non sembra migliorata da allora…
L’Europa continua a faticare e non aiuta il fatto di essere vicini alle elezioni con tutto quel che ne consegue in termini di rincorsa al consenso facile. Basta sentire quello che ha detto Draghi per capire che il solco tra le due sponde dell’Atlantico è sempre più profondo, anche in termini di reddito pro capite.
Le cause sono solo esogene, come lo shock energetico determinato dall’invasione russa dell’Ucraina, o anche endogene?
Certamente la guerra in Ucraina ha il suo peso non indifferente, come abbiamo visto anche in termini di aumento dei costi energetici, ma c’è anche il fiato corto dell’Europa, poco capace, eccezion fatta per la reazione post-pandemica sfociata nel Next Generation Eu, di affrontare le sfide che ha di fronte. Basta pensare al nuovo Patto di stabilità, arrivato dopo quattro anni di sospensione delle regole del precedente, ma che nel complesso, sebbene ancora non sia arrivato a una versione definitiva, non sembra discostarsi dai quei parametri che Prodi definì stupidi più di 20 anni fa. L’Europa sta commettendo errori anche in termini di politica industriale, con una transizione green che non sembra curarsi troppo delle sue ricadute economiche e sociali.
La proposta di Draghi sul debito comune europeo non è nuova e anche di recente, basta pensare alla proposta di un fondo sovrano europeo, si è parlato della necessità di massicci investimenti. Tuttavia, non ne è seguito nulla. Perché questa volta dovrebbe andare diversamente?
Se vuole uscire dalla difficoltà politica e istituzionale in cui si trova, come si è visto nel caso degli aiuti all’Ucraina bloccati dal veto ungherese, dalla stagnazione economica sempre più evidente e dalla perdita della base industriale, se vuole salvaguardare il suo sistema di welfare già costoso, ma che diventerà ancora più oneroso vista la situazione demografica, occorre che l’Ue dia vita a una svolta, perché anche lo status quo è diventato difficile da sostenere.
Di fatto l’Europa è su un piano inclinato…
Sì. Se politicamente prevalesse l’ipotesi di mantenere lo status quo, si tratterebbe di una soluzione tampone di sopravvivenza, niente che somigli a un orizzonte come quello di portare l’Europa a essere protagonista nelle sfide del futuro, pensiamo solo a quella dell’Intelligenza artificiale, dove attualmente è totalmente assente.
Di questi temi, però, non c’è traccia nella campagna elettorale europea.</b
Il dibattito politico europeo appare totalmente aereo. Per riflesso condizionato è stata proposta l’idea di una nuova Commissione von der Leyen, il che la dice lunga sulla scarsa propensione a innovare, a cercare di trovare delle soluzioni nuove, a dare dei contenuti operativi a quello che è il lavoro stesso che è stato affidato da Draghi, ovvero la redazione di un rapporto sulla competitività europea. I primi risultati che stanno emergendo non sono incoraggianti, ma la campagna elettorale europea ignora totalmente il problema, sembra più un dibattito buono per gli editorialisti. Tuttavia, Draghi evidenza la necessità di massicci investimenti che richiedono ingenti risorse che andranno trovate. Dove? Su questo tutti i politici preferiscono parlare d’altro.
Draghi ha chiesto ai Presidenti delle Commissioni dell’Europarlamento di costruire un consenso politico per riformare l’Europa: quale migliore occasione per farlo del voto dei cittadini?
È così, se non si vuole correre il rischio di varare riforme senza un vero consenso. Certo, non è facile calare a terra le conseguenze delle richieste e dello scenario paventato da Draghi, perché, per fare un esempio, si tratterebbe di governare la spesa pubblica più da Bruxelles che non dalle capitali dei singoli Paesi. Lo stesso ex Presidente della Bce, vista la sua esperienza a palazzo Chigi, sa quanto sia complicato misurarsi con le forze politiche su temi così importanti. L’Europa è di fronte a un bivio tremendo, con un imminente elezione, e ci arriva con il fiato corto di una stanca riproposizione della formula von der Leyen per un bis con il sostegno di popolari, socialisti e liberali, sempre che i risultati del voto poi consentano di attuarla, visti i sondaggi. Nazionalisti e populisti, infatti, incalzano. C’è un gran ribollire di attese che certo non giovano a una discussione razionale sui problemi dell’Europa.
Secondo lei, Draghi avrà un ruolo o un incarico europeo dopo le elezioni?
Vista la “prenotazione” di Ursula von der Leyen per il bis è difficile che possa nel caso diventare Presidente della Commissione, ma certamente potrebbe esserlo del Consiglio europeo. Potrebbe anche essere l’uomo giusto, ma se mantiene il profilo delle sue proposte, come del resto ha sempre fatto nella sua vita, andiamo incontro a momenti non facili, perché Draghi mette di fronte a delle scelte nette. Diventerebbe difficile trovare un compromesso tra i tutti i Paesi membri. Forse a quel punto la prima riforma da fare sarebbe quella relativa alle decisioni da prendere all’unanimità.
(Lorenzo Torrisi)
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