“Un cambiamento radicale”. All’insegna, ancora una volta, del Whatever it takes, “tutto ciò che è necessario” per assicurare all’Unione Europea l’agognata “competitività”. Ursula von der Leyen gli aveva assegnato i compiti a casa e lui, Mario Draghi, dopo una prima anticipazione, li ha svolti da par suo, candidandosi probabilmente a prendere il posto della presidente della Commissione uscente.
Quello di La Hulpe potrebbe sembrare un discorso economico, e in parte certamente lo è. Ma è soprattutto un manifesto politico, gravido di contenuti e di conseguenze squisitamente politiche.
Ne abbiamo parlato con Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale nell’Università Cattolica di Milano.
Draghi critica una strategia europea basata su “riduzione dei costi salariali” e “politica fiscale prociclica” per ottenere più competitività. Così facendo – dice – è stata indebolita la domanda interna e minato il modello sociale. Qualcuno ha osservato che sono esattamente gli errori che improntavano la lettera al Governo italiano dell’agosto 2011 a firma Draghi e Trichet.
È evidente. Draghi è uno dei massimi responsabili delle politiche deflattive che hanno distrutto benessere e Stato sociale dai tempi della Grecia. Adesso dice ciò che tutti le persone di buon senso sapevano, ossia che politiche procicliche in tempi di crisi alimentano la crisi.
Ma è anche l’uomo del “Whatever it takes”, del salvataggio dell’euro.
Il “Whatever it takes” è stato il bluff di un eccellente giocatore che ha salvato in un momento di crisi la moneta unica, evitando disastri peggiori. Da allora più nulla.
Dopo non c’è stata la “svolta keynesiana”?
La svolta keynesiana di Draghi l’abbiamo vista all’opera in Italia. Che non sia diventato Presidente della Repubblica va solo a merito di chi è riuscito ad evitarlo. Draghi dodici anni fa ha salvato l’euro e quella macchina con tre ruote che è l’Unione monetaria con un colpo di sterzo. Da qui viene la sua fama fuori di Italia. Ma da allora, ripeto, più nulla.
Poi, afferma Draghi, “abbiamo confidato nella parità di condizioni globale e nell’ordine internazionale basato su regole, aspettandoci che altri facessero lo stesso” (corsivo nostro). Anche secondo lei c’è qualcosa che non torna?
A non tornare è l’idea di “ordine internazionale basato su regole” che era il vecchio mantra di una globalizzazione fallita da dieci anni. La tragica vicenda ucraina ne è stata l’epilogo. Il vero problema è che a Bruxelles, avendo selezionato una classe dirigente e un funzionariato solo su base ideologica, non sono in grado di vedere la realtà del loro fallimento, e non realizzano di avere portato un Continente a sbattere. Hanno responsabilità enormi. Che dovrebbero fare paura. E non sanno più cosa fare, se non alzare sempre più la posta.
Restiamo per un attimo sull’ordine e le regole. Fatte da chi?
Questa è la domanda. L’idea di un “ordine internazionale basato sulle regole” è figlia dell’internazionalismo degli anni Venti del 900. E cioè del dopo-Versailles. Il dramma è che da una parte qualcuno nel mondo credeva che la Ragione avrebbe illuminato tutta l’umanità, e ci credeva beatamente. Sono in Europa gli epigoni di Kant e negli USA quelli di Woodrow Wilson. E mentre qualcuno raccontava queste – diciamo così – cose, altri scrivevano le regole per fare soldi a spese del resto del mondo, comunque convinti della loro superiorità morale.
Questa, però, non è più politica.
No, infatti. È la riedizione su scala globale di una malattia ricorrente dell’Anglosfera, che comincia con Kipling e finisce con Yuval Harari e l’Homo Deus che dovrebbe transumanare. Lei capisce che quando una società prende sul serio cose del genere è al collasso. Come è al collasso l’ordine della globalizzazione cui nessuno crede più, se non a Bruxelles. Basta vedere come sono trattati fuori d’Europa von der Leyen, Michel e Josep Borrell. Anni fa Martin Wolff scriveva Perché funziona la globalizzazione. Oggi dovremmo chiederci “Per chi funziona la globalizzazione”. Ma la risposta l’abbiamo sotto gli occhi uscendo di casa.
Ancora Draghi, per il quale l’agenda climatica “ambiziosa” dell’UE è, a quanto pare, un punto fermo, afferma che occorre realizzare le legittime ambizioni politiche dell’Unione “senza aumentare le nostre dipendenze”, contando “su sistemi energetici decarbonizzati e indipendenti”. Qual è il grado di legittimazione politica di queste opzioni e di questi target?
Il livello di legittimazione politica del Green Deal voluto da questa Commissione lo si misura dalle rivolte periodiche in Francia, dai trattori in Germania e in Olanda, dalle proteste in Europa orientale. È il clima di guerra a tenere tutti tranquilli. E chi contesta o critica il “Giardino europeo” di Josep Borrell (contrapposto da Borrell alla “giungla” del resto del mondo, nda), diventa subito una pericolosa quinta colonna del Male.
Rischio di perdermi. Cosa c’entrano guerra e Green Deal?
In realtà il Green Deal è solo un tentativo di riconversione industriale di un continente condotto all’angolo dai suoi architetti che si fonda su una tecnologia immatura e inefficiente già abbandonata nel resto del mondo. E su una propaganda costruita su eco-ansie e panico delle generazioni future. La verità è che quando certi sistemi economici non sono più in grado di esportare iniziano a divorare se stessi per fare profitto. È la strada che è stata scelta da questa Commissione, eletta, ricordiamocelo, con i 17 voti dei 5 Stelle italiani. Quante volte si parla di difesa nel discorso?
Nove volte. Si ribadisce l’importanza di un “sistema di difesa integrato e adeguato basato sull’UE”, e di superare la frammentazione per ragioni di sicurezza.
Bismarck diceva che la guerra è solo una “modalità di funzionamento della società”. L’economia di guerra – e quindi la società di guerra – è la via d’uscita immaginata a Bruxelles per uscire dal pantano economico in cui hanno infilato un intero continente con una serie di scelte di riconversione industriale tragicamente sbagliate.
Laddove vengono tratteggiati i nuovi “beni pubblici” europei e occorre trovare “i mezzi per finanziarli”, Draghi fa trapelare l’ipotesi che a farlo debbano essere i risparmi privati improduttivi, cioè “incanalati nei depositi bancari”. Come commenta?
Commento dicendo che i soldi si vanno a prendere dove ci sono. E fermi nei conti italiani ce ne sono di più che in ogni altro Paese d’Europa, Germania compresa. Il tesoretto d’Europa sta nelle banche italiane. Ed è fatto, più o meno, da oltre 6mila miliardi fra depositi ed attività finanziarie. Il MES, sanitario o che altro, serviva esattamente a questo. Adesso ci si prova con la storia dei “risparmi improduttivi”. È un discorso da Stato socialista.
Stato socialista, ha detto. Com’è possibile?
L’Unione ha sempre avuto in sé questa componente che affianca il discorso su Kant e i “diritti fondamentali”. Pochi sanno che uno dei primi e glorificati commentatori della kantianissima Costituzione tedesca – quella che dice all’art. 1 che la dignità dell’uomo è inviolabile – solo pochi anni prima serviva in Ucraina con addosso la divisa delle Waffen SS. Poi, dopo il 1945, è diventato kantiano. Perché? Perché Kant era stato scelto come la faccia spendibile della Nuova Germania e quindi della Nuova Europa del Dopoguerra.
Cosa intende dire con questo?
Può non piacere, ma è semplicemente quello che dicono i Trattati europei: i valori europei alla fine sono sempre e solo valori economici. È piuttosto banale, se ci pensa.
Verso la fine: “non possiamo permetterci il lusso di ritardare le risposte a tutte queste importanti domande fino alla prossima modifica del Trattato”. Il TFUE, immagino.
Con questa frase si propone il colpo di mano in nome dell’emergenza perenne che governa questo continente dal 2011. Draghi dice certe cose per vedere come vengono accolte. Se poi si deve costruire un nucleo politico-economico per alimentare lo stato di guerra in cui è destinata a scivolare l’Europa a discapito dei discorsi sulla ever closer Union… lo si farà, e la narrazione seguirà.
Si afferma poco dopo che “dovremmo essere pronti a considerare di procedere con un sottoinsieme di Stati membri”.
È esattamente quello che ho appena detto. Si propone di andare verso un sistema di collaborazioni intergovernative, con buona pace dei discorsi sulla Costituzione europea e l’Europa unita. Il Trattato del Quirinale e il Trattato di Aquisgrana ne sono state le prove generali. Entrambi erano e sono trattati politici, e cioè alleanze militari rafforzate. Non a caso imperniate sulla collaborazione delle industrie militari come volani di crescita e di profitto. Mentre Eurogendfor è la polizia militare interna dell’Unione destinata ad operare a supporto di questo progetto.
In un’intervista del 2021 lei diceva che presto avremmo avuto “l’assalto finale a Kaliningrad per liberarla, e ribattezzarla Koenigsberg in nome di Kant” e che si sarebbero dovuti “mandare i Rafale perché i tempi di lancio da Kaliningrad a Berlino sono minuti, e il diritto lo impone”. Sembrava un brutto scherzo.
In realtà, si capiva bene che un Continente impegnato da anni in una guerra normativa al proprio interno – e che si svolgeva nella redazione di direttive e regolamenti prima e poi di MES e PNRR – prima o poi avrebbe dovuto cercare di sopravvivere portando la guerra all’esterno.
Non crede di avere tratteggiato una situazione senza speranza?
Grazie della domanda. Se ci sono delle speranze stanno, come al solito, negli Stati Uniti. La verità è che l’Europa è governata, dal 1945 con intensità variabile, dagli Stati Uniti. E la crisi europea è figlia e diretta conseguenza della crisi che stanno attraversando gli USA dai tempi di Obama e delle scellerate politiche inaugurate dal suo Dipartimento di Stato. Per noi quella crisi ha voluto dire Libia e guerra sotto casa. Per altri ha voluto dire molto peggio.
Dunque la speranza è nelle elezioni USA di novembre?
Meglio sarebbe stato se prima si fosse dovuto votare in USA e poi in Europa. Purtroppo – ma temo non per caso – le scadenze sono invertite. Il rischio è la riedizione del rapporto Trump-UE tra il 2016 e il 2020, dove l’Europa è stato il luogo in cui la parte perdente delle elezioni USA del 2016 si è arroccata per fare opposizione a Trump e rilanciare, usando una figura spenta come Biden per tornare al potere. La speranza d’Europa è tutta lì. Temo un altro 2020 prima di allora.
È sorpreso dal discorso di Draghi?
No, per nulla. Mario Draghi abbiamo imparato a conoscerlo da Presidente della BCE prima, e da Presidente del Consiglio poi. Ma Draghi è un uomo dai molti – e direi troppi – passati, compresi quelli del Britannia e della della svendita pilotata dell’IRI sulla base del Patto Andreatta-Van Miert di cui nessuno si ricorda più. Peccato non ci sia più un gigante come Francesco Forte a raccontare queste cose. Era il giugno-luglio del ’92. In questo senso Draghi è una specie di Giuliano Amato europeo.
Che cosa significa?
Significa che nel 1992 Draghi era relativamente giovane e Amato era il Presidente del Consiglio del prelievo notturno sui conti degli italiani, fatta per difendere una manovra sballata di Bankitalia che è costata miliardi di riserve per nulla. Da allora è successo di tutto. Il risultato è che oggi Draghi gioca a fare il Lord Protettore d’Europa, con applausi costanti, mentre Amato parla di Ustiche e di giudici della Corte costituzionale in carcere con applausi calanti. Ma sono figure identiche. Vite parallele, che svolgono lo stesso lavoro da decenni.
E se l’ex premier fosse l’ultima vera carta che rimane da giocare a questa Europa?
Se gode ancora di un immutato prestigio dopo il “Volete la pace o i condizionatori accesi”, il “Chi non si vaccina muore e fa morire”, e dopo avere ideato le sanzioni che avrebbero dovuto piegare l’economia russa, è solo perché la “buona stampa” e i suoi disinteressati commentatori continuano a costruire la figura del Cromwell europeo. Non abbiamo avuto la pace; la Russia, oltre ad aver già vinto in Ucraina, non è mai stata meglio in termini economici, e noi siamo diventati un Continente senza energia, senza materie prime, e presto senza industria per scelte sbagliate di politica industriale fatte in Germania e a Bruxelles. Ha probabilmente gestito la storia dei contratti segreti di fornitura dei vaccini per tutta Europa, firmati non si sa bene da chi nell’interesse di chi. E guardi che questa non è questione di vaccini.
E di che cosa, allora?
Di contratti. Quella delle mancate politiche industriali europee dai tempi dell’Accordo Multifibre sarebbe una storia da raccontare. Se vuole, la storia dei vaccini è una storia anche di politica industriale.
Negli USA stanno facendo molto per fare luce sui vaccini.
È vero. E in Italia non se ne dà notizia. Ma guardi che, alla fine, dipenderà tutto dalla vittoria o meno di Trump in USA.
E poi?
Poi, se Trump vincerà, si aprirà il Vaso di Pandora. E la gente in Italia inizierà a leggere sui giornali quello che sa già per esperienza personale. Si impazzisce tutti assieme, ma si rinsavisce uno per uno. Se questo succederà, per molti, anche dalle nostre parti, sarà solo questione di tempo.
In caso contrario?
In caso contrario, le società europee entreranno nella “condizione di guerra” di cui parlava Bismarck, che, se non altro, aveva il pregio dell’onestà. Non sarà un’economia di guerra temporanea come si sussurra oggi con sussiego. Sarà una società diversa.
(Federico Ferraù)
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