È il momento di “focalizzarci sull’economia reale”: Fabio Panetta è stato più esplicito del solito. Le politiche monetarie restrittive “non sono più necessarie”. Anzi, siccome “l’inflazione è vicina al target del 2% e la domanda interna ristagna” diventano pericolose perché possono provocare una vera recessione. Gli ultimi dati sulla congiuntura dell’Eurolandia gli danno ragione in pieno. Il messaggio è chiaro: il 12 dicembre quando si riunirà per l’ultima volta quest’anno, la Bce deve abbandonare la strategia dei piccoli passi e ridurre i tassi di riferimento in modo consistente, almeno mezzo punto percentuale; sarebbe meglio anche di più, in modo da invertire le aspettative di imprese e famiglie che volgono al peggio, come mostra l’ultimo indice Pmi che raccoglie i pareri dei responsabili acquisti delle imprese.
Anche Christine Lagarde ha espresso la sua preoccupazione, tuttavia ha lanciato la palla in avanti: ha auspicato la creazione di un mercato unico dei capitali, condizione senza dubbio necessaria, ma non sufficiente e in ogni caso di medio-lungo periodo, troppo lungo per invertire il ciclo discendente della congiuntura.
Il Governatore della Banca d’Italia è uno che ama dire pane al pane e vino al vino, ma non parla a vanvera e non ha nemmeno la vocazione del guru che predica nel deserto. Le sue preoccupazioni sono condivise da molti come il collega francese: François Villeroy de Galhau venerdì scorso ha detto che la Bce deve stare attenta a deprimere inutilmente la crescita e si è espresso a favore di nuovi tagli il prossimo mese. La Bce ha già ridotto i tassi tre volte quest’anno e gli investitori prevedono un ulteriore allentamento a ogni riunione fino al prossimo giugno, il che porterebbe il tasso di deposito del 3,25% almeno al 2%, ma forse anche più in basso.
La Francia è in seri pasticci politici (con un Governo ballerino senza chiara maggioranza) ed economici: crescita bassa e debito pubblico che ha compiuto un balzo, arrivando a 3.228 miliardi di euro, pari al 110% del Pil. Quindi, in termini assoluti il debito francese è peggiore del debito italiano, mentre in rapporto al prodotto lordo resta inferiore all’Italia che si avvia a superare il 140%. Con una crescita inferiore all’un per cento stimato dal Governo, infatti, la percentuale è destinata a peggiorare rispetto alle precedenti previsioni che davano un debito al 139%.
Anche l’agenzia di rating Moody’s nel suo bollettino di venerdì prevede una crescita inferiore a un punto percentuale quest’anno e un debito che arriva al 139,7% con un incremento di ben cinque punti rispetto al 2023. Il Governo sostiene che si tratta del trascinamento perverso del Superbonus 110%, ed è vero. Ma secondo Moody’s il debito continuerà a crescere fino al 2027 quando arriverà al 143%, nonostante si sia spento l’effetto bonus. L’agenzia in ogni caso non ha peggiorato il voto in pagella: il rating resta Baa3 appena poco sopra il livello “spazzatura”. Dunque l’Italia cammina su una corda quanto mai sottile, con la stagnazione tedesca che rischia di spingerla verso il basso e la sfida Trump che potrebbe dare un colpo duro all’industria manifatturiera.
L’export verso gli Stati Uniti è cresciuto molto dopo la pandemia, ma l’Italia resta soltanto l’undicesimo partner commerciale, il made in Italy è appena il 2,4% di quello che lo zio Sam compra in giro per il mondo. Ciò non vuol dire che non ci saranno ricadute negative (i produttori di parmigiano stanno già riempendo i loro magazzini negli Usa).
Se, come sembra, il primo bersaglio nella guerra dei dazi sarà la Germania, le conseguenze saranno pesanti non solo sull’interscambio verso il principale Paese di sbocco delle merci italiane, ma sulla catena produttiva visto lo stretto intreccio in settori chiave come l’automotive. Dunque, se i danni diretti potranno essere tenuti sotto controllo, quelli indiretti rischiano di diventare una valanga.
Trump ha lanciato una vera e propria sfida all’Europa. Anzi una serie di sfide parallele, ma convergenti verso lo stesso obiettivo. La prima riguarda la crescita con gli Usa che viaggiano a un passo almeno doppio; la seconda è militare e costringe i Paesi europei a spendere di più e raggiungere almeno l’obiettivo del 2% del Pil annuo per contribuire al bilancio della Nato. La terza sfida è politica e investe il modo in cui funziona l’Unione europea.
Sull’altro versante dell’Atlantico c’è un leader che si avvia a diventare un uomo solo al comando (vedremo se ci riuscirà, ma questo è l’obiettivo) in grado decidere rapidamente (il controllo del Congresso riduce il rischio che venga gettata sabbia parlamentare nel motore del potere esecutivo). Bruxelles ha a che fare con 27 Paesi diversi che votano all’unanimità tutti i provvedimenti più importanti, più una serie di conflitti politici e ideologici che stanno frantumando le stesse “famiglie” del Parlamento europeo.
Ne avremo un’ulteriore prova mercoledì prossimo quando si dovrà votare per un secondo mandato a Ursula von der Leyen. Tutti si aspettano che la Presidente ce la faccia, ma grazie a una maggioranza risicata e arcobaleno in seguito a scissioni e separazioni all’interno dei gruppi parlamentari a sinistra come a destra. Un galeone spagnolo davanti a una portaerei americana. Trump può essere uno stimolo a cambiare, forse sì, ma per ora questa sembra solo una speranza; wishful thinking in inglese, pio desiderio in italiano.
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