Tema: “Le banche centrali in un mondo in frammentazione”. A svolgerlo è Christine Lagarde, presidente della Banca centrale europea, ex presidente del Fondo monetario. Di fatto la massima autorità dell’Unione, se si ha chiaro che cos’è e come funziona l’Unione Europea. Ad ascoltarla, a New York, la platea selezionatissima del Council of Foreign Relations.



Non è un discorso qualsiasi, perché Lagarde ci spiega qual è il compito della Bce in un mondo in guerra. Ci dice, cioè, come “vede” il mondo e di conseguenza che cosa intende fare. E qui cominciano i problemi. Ne abbiamo parlato con Agustín José Menendez, specialista di diritto comparato, attualmente professore di filosofia del diritto nell’Università Complutense di Madrid.



Lagarde usa espressioni molto interessanti. “Period of transformative change”, “fragmentation of the global economy”, “new global map” e altre. La prima significa “guerra”, la seconda “fine della globalizzazione”, la terza che il mondo non è e non sarà più come prima. È una traduzione troppo sbrigativa?

Mi sembra che la traduzione che lei suggerisce sia quella giusta. Lagarde, come al solito, parla in una vera e propria neolingua. Strano modo di mettere in pratica la trasparenza a cui dice di aspirare.

Vuole segnalarci altre espressioni curiose?

In alcuni casi, le espressioni che usa Largarde sono in realtà molto vecchie. Non parla dell’impero americano, ma della “hegemonic leadership” degli Stati Uniti, un concetto molto usato durante la Guerra fredda. In altri casi la formula è relativamente nuova, ma non è stata coniata da Lagarde. È il caso di “strategic autonomy”, la versione decaffeinata di “strategic sovereignty”, che a sua volta è la versione senza zucchero di sovranità. È interessante anche che per riferirsi alla stessa realtà – la fine della globalizzazione – usi diversi concetti. Così, quando Lagarde parla della fine della “elasticity of global supply”, in realtà sta riconoscendo il fatto che il sogno del “mondo piatto” dei globalisti è finito.



Veniamo all’obiettivo dichiarato: le implicazioni di questi cambiamenti per le banche centrali. Di fronte a “ripetuti shock nell’offerta” le banche centrali “continueranno a garantire la stabilità dei prezzi”. Come commenta?

Alle volte sembra che il discorso sia stato scritto a quattro mani. E che due mani abbiano scritto la diagnosi, che è abbastanza realistica e condivisibile. La sola guerra in Ucraina conferma che la Pax americana è arrivata alla sua conclusione, e con essa anche la globalizzazione neo-ordo-liberale. Ma se il mondo è cambiato, c’è da chiedersi come dovrà cambiare la politica monetaria e di conseguenza come dovranno cambiare le banche centrali. Fin qui il discorso è ineccepibile.

E le altre due mani?

Ci dicono come le nuove ricette siano in realtà vecchie: “new wine in old bottles”, dicono gli inglesi. Nella lingua largardiana, le banche centrali devono servire come “anchor of monetary stability”. Assumendo, in questo modo, che i vecchi strumenti servano ancora, cosa che non è evidente. E Lagarde non si chiede mai quale ruolo la politica monetaria della Bce abbia avuto nella gestazione della crisi finanziaria ed economica del 2008, o ancora che effetto abbiano avuto i tassi ultra-bassi o negativi nella decade del 2010. Per non parlare di cosa resti della cosiddetta “indipendenza” della banca centrale se la Bce si mette a fare politica economica.

Garantire la stabilità dei prezzi nel nuovo mondo frammentato, spiega Lagarde, può avvenire solo a certe condizioni. La presidente della Bce ne elenca due: una “maggiore coesione politica” e la determinazione di precisi obiettivi strategici. Ma attenzione: nessun “sostegno ai redditi per compensare la pressione sui costi”. Occorre puntare sull’effetto moltiplicatore generato da investimenti verdi e digitali. Davvero la risposta all’aumento del prezzo del pane sono le pale eoliche?

C’è un problema che viene prima. La presidente della Banca centrale europea ci sta dicendo quale dovrebbe essere la politica economica dell’Unione Europea e in generale di quello che chiamiamo “Occidente”, ma è una questione che non mi risulta sia di sua competenza.

Non c’è il pericolo che quella “maggiore coesione politica” si traduca in un nuovo Moloch socialista, realizzato via transizione ecologica?

Non vedo proprio traccia di interventismo nel discorso. Basta leggere i giornali per rendersi conto che quando Lagarde parla di investimento pubblico, sta proponendo che l’erario pubblico assuma i rischi degli investimenti privati. È il cosiddetto “derisking”. Siamo piuttosto davanti a una sorta di socialismo alla rovescia, gradito alle multinazionali e alle grandi banche che non sanno più fare credito. Una visione che si è fatta molto popolare perché gli Stati non hanno più i mezzi istituzionali per fare veri investimenti pubblici, ma che risulta palesemente contraria al diritto costituzionale dello Stato democratico e sociale. E anche, ironicamente, al diritto europeo.

Lagarde invoca anche una maggiore coesione finanziaria e bancaria dell’Ue come risposta alla “frammentazione” geopolitica. Che cosa significa in concreto? 

Credo che in questo discorso Lagarde stia invocando una ulteriore integrazione dell’area “atlantica” nel suo insieme. L’ ulteriore integrazione dell’Unione Europea si produrrebbe in tale contesto e sarebbe strumentale al vero obiettivo. Basta pensare, insisto, a quale pubblico si dirigeva Lagarde.

Appunto, quale?

Il gotha del Council of Foreign Relations, vero “tempio” della politica estera americana. Per tanti versi un uditorio più influente del Congresso e del Senato americani messi insieme.

A suo avviso è attuabile quella “coesione politica” con il deficit di rappresentanza che caratterizza l’Unione?

È vero che certe frasi del discorso possono sembrare fondate su una visione neo-federalista. Ma quello è essenzialmente “maquillage”. Ho già accennato al fatto che Lagarde preferisce parlare di “autonomia strategica” invece che di “sovranità strategica”. Ancora più rivelatore è il fatto che insista sull’importanza della lotta contro l’inflazione a ogni costo, perché, sostiene Lagarde, da quella dipende il “prestigio” internazionale dell’Europa, e quindi gli investimenti fatti dal capitale straniero nel continente. L’idea di “fare l’Europa” per attirare meglio i capitali esteri mi sembra una forma di pensiero neoliberale o ordoliberale veramente peculiare. Fa impressione sentirla articolare da un’ex ministra dell’Economia francese.

Nel programma di Lagarde sembra di percepire una grande contraddizione. Qual è secondo lei?

La presidente della Bce, come tanti dirigenti europei, ha capito che qualcosa sta veramente cambiando, ma allo stesso tempo fatica a concepire un mondo che sia radicalmente diverso da quello che ha creduto di conoscere. Basta pensare che dopo aver fatto l’elenco dei mutamenti geopolitici in corso, ritiene fondamentale quantificare l’impatto sull’inflazione; una cosa semplicemente impossibile. Siamo di fronte a un’affabulazione ben più sofisticata di quelle dell’abate Vella nel Consiglio d’Egitto!

Testualmente, “l’aumento del livello globale dei prezzi al consumo potrebbe variare tra circa il 5% nel breve periodo e circa l’1% nel lungo periodo”.

È un risposta che ci dice più della visione del futuro che ha Lagarde e molto meno di ciò che accadrà. Sono cifre che rivelano una fede nell’immutabilità del mondo in palese contraddizione con i fatti che la stessa Lagarde snocciola nel discorso. Davvero un mondo in balia di guerre costanti vedrà l’1% di inflazione? E in quel mondo, sarà il tasso d’inflazione la nostra vera preoccupazione?

A chi appartiene, oggi, un programma come quello enunciato dalla Lagarde? Qual è la sua matrice ideologica?

Appartiene a un ceto dirigente “atlantista”, americano ed europeo, che ha occupato posizioni dirigenti dagli anni 90 in poi. Un ceto che ha creduto nella “fine della storia”, e che invece si è trovato a fare i conti con i disastri causati dal neo-ordo-liberalismo. Senza avere né la formazione né la sensibilità per capire il passato e immaginare il futuro. Nel 2009 Tony Judt parlava di una “crappy generation” di leaders. Ma forse quest’espressione, in tempi di neolingue, è troppo brutale.

(Federico Ferraù)

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